Skip to main content

Le difficoltà di un intervento militare in Libia

nato

Scrive su Vice News Mattia Toaldo, ricercatore dell’European Council on Foreign Relations, che l’intervento militare in Libia ormai non è più questione di «se» (ci sarà), ma «quando e dove». Sul “quando” le posizioni sono diverse, perché se l’Italia ha sempre sostenuto che serve prima la formazione di un governo di pacificazione libica, annunciato oggi, e poi che lo stesso produca un invito formale all’operazione militare, Inghilterra, Stati Uniti e soprattutto Francia si sono dette pronte ed azioni contro lo Stato islamico in Libia anche senza la richiesta ufficiale del nuovo esecutivo di Tripoli.

Anche la Germania, lunedì, attraverso un’intervista della ministro della Difesa Ursula von der Leyen alla Bild, ha dichiarato di essere disposta ad un’azione militare anche immediata per contrastare l’avanzata del Califfato. In questo momento il timore non è semplicemente l’offensiva lanciata sulla costa mediterranea di questi ultimi giorni, ma è legato anche al fatto che i baghdadisti possano sfruttare il vuoto di potere libico per creare collegamenti verso sud (terre di nessuno teatro di traffici e contrabbandi verso le aree dell’Africa centrale, che sono controllate da Boko Haram), e sfruttino questo link per “importare” in Libia foreign fighters e rafforzarsi ulteriormente; lo spostamento delle rotte dei combattenti stranieri verso la Libia, è stato già registrato dalle intelligence. In questo modo, l’ala libica del Califfato diventerebbe il riferimento dell’Isis per tutto il continente africano.

LA LINEA ITALIANA

Il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni davanti all’annuncio di Berlino ha continuato a sostenere che prima di intervenire serve “un invito” dalla Libia. La questione sostenuta dall’Italia non è da poco. Chiaro che se altre nazioni europee si dovessero muovere, si porterebbero al seguito anche i soldati italiani, perché sia Usa che UE hanno riconosciuto all’Italia il ruolo di guida dell’eventuale intervento armato (talmente imminente che ha già i numeri: 5000 italiani, mille inglesi e trecento tedeschi, con altri Paesi che si aggiungeranno in supporto tra cui la Francia ovviamente). Ma Roma, come ricordato dal premier Matteo Renzi sul Corriere della Sera, non ha intenzione di farsi coinvolgere in un’azione frettolosa e sbagliata come quella del 2011, quando Parigi avvisò le controparti italiane dell’azione con già gli aerei da guerra in volo verso Tripoli. L’Italia intanto ha schierato 4 caccia Amx e un drone Predator all’aeroporto di Trapani Birgi: la loro missione sarà di raccogliere dati durante i sorvoli sulla Libia su potenziali obiettivi.

MAGNETIZZARE L’ODIO

La questione sollevata dall’Italia, cioè “aspettiamo il via libera libico”, non è solo politica, ma ha un forte riscontro pratico. Il rischio, chiaro, è che un intervento militare occidentale ─ che si ricorda, avrebbe come obiettivo l’addestramento delle truppe locali, una funzione di advising simile a quella in Iraq, più eventuali operazioni speciali e raid aerei ─ rischierebbe di magnetizzare contro i soldati europei non soltanto le forze del Califfato, ma anche quelle rappresentate da diverse milizie a varia componente islamista e nazionalista che non vedrebbero di buon occhio (eufemismo) un’azione unilaterale dall’estero. Attenzione: non è detto, ovviamente, che l’eventuale invito dell’ex architetto Faies Serraj, l’uomo designato dall’Onu per guidare l’esecutivo di concordia nazionale, non si porti dietro reazioni di rappresaglia, ma darebbe una legittimità in più. Un esempio, sembra impossibile che la richiesta del governo di forze occidentali sul suolo libico, possa accontentare milizie come quelle di Ansar al Sharia, forze islamiste inclini al qaedismo (anche se il gruppo a Sirte è smottato verso lo Stato islamico) che tendenzialmente vedono l’Occidente come nemico. E vista la debole rappresentatività di Serraj, che alla prima visita ufficiale in Libia (adesso opera protetto da un hotel di Tunisi) ha rischiato la pelle per tre volte, questa tendenza sarà difficile da invertire.

IL VUOTO DI POTERE

Gli Stati Uniti lo sanno bene. Il New York Times racconta alcuni dettagli su una vicenda successa qualche settimana fa. Il 14 dicembre del 2015 una squadra Marsoc (il gruppo operazioni speciali dei Marines americani) è atterrata alla base aerea di al Watiya, vicino al confine tunisino: «Si aspettavano un caldo benvenuto» scrive ironico il NYTimes, «invece gli uomini di una milizia hanno minacciato di imprigionare il commando e li hanno costretti da evacuare». Si è trattato di un errore di comunicazione, secondo il governo americano, ma l’episodio ha messo in chiaro le difficoltà che i soldati occidentali potrebbero incontrare sul suolo libico se perdura la mancanza di un’autorità centrale rappresentativa e credibile che riesca a gestire le forze di sicurezza e controllare la miriade di milizie armate presenti. Quella proposta dall’Onu sarà in grado di tener fede a queste esigenze?

CERCARE PARTNER

Lo Stato islamico in Libia è probabilmente la presenza territoriale più pericolosa a livello globale: sta continuamente cercando di allargare i propri confini, si trova in un’area nevralgica (il Mediterraneo), può allungare le mani sul traffico di esseri umani e può facilmente attecchire tra i giovani locali ottenendo così “forze fresche” (la Tunisia è il paese che ha mandato più combattenti in Siria, e in Algeria, Marocco, Egitto, le istanza jihadiste sono una realtà esistenze a livello culturale e sociale). Ma per contrastare quest’avanzata, America (e alleati) devono cercare partner locali affidabili: è la strategia del Close Support, che a livello tattico/operativo funziona (come si vede in Iraq e Siria) attraverso l’appoggio ravvicinato di aerei americani a sostegno dei combattenti locali; mentre a livello politico consta nel trovare un alleato disposto a mettere gli stivali sul terreno, a cui si insegna a passare dati e coordinate ai centri logistici che gestiscono i raid aerei, garantendo protezione dall’alto. Questo, per il momento, in Libia è complicatissimo al limite dell’impossibile, perché le fazioni sul campo sono realtà tribali, fortemente territorializzate, nazionaliste e in generale inaffidabili. L’Amministrazione Obama ne conosce le conseguenze: dovevano essere milizie locali ad occuparsi della protezione del compound che ospitava il consolato americano a Bengasi, ma una volta finito sotto attacco si diedero alla fuga. La storia finisce con una ferita ancora aperta per l’America, la morte dell’ambasciatore Christopher Stevens.

Senza una coesione di fondo, uno sforzo straniero per potenziare una milizia piuttosto che un’altra, significherebbe inasprire le tensioni, creare ulteriori divisioni, alimentare nuove rivalità. E nemmeno affidarsi alle ex-istituzionali Forze armate libiche può funzionare, visto che ormai sono comandate dal generale Khalifa Heftar, uomo di Tobruk che cura gli interessi in Libia di Egitto e Emirati Arabi, e che rappresenta il massimo degli elementi di polarizzazione.

CONTATTI OPERATIVI

Ciò nonostante, l’imminenza della minaccia baghdadista incombe, e così nel corso dell’ultimo anno, team di forze speciali provenienti dall’Africom (il comando degli Stati Uniti che gestisce le operazioni in Africa) hanno viaggiato in Libia con diversi obiettivi: «Raccogliere informazioni sulla situazione, valutare le capacità di combattimento di ogni fazione e le eventuali esigenze specifiche, e valutare la capacità dei gruppi di lavoro con le truppe alleate americane» spiega un alto funzionario militare americano, che ha parlato a condizione di anonimato con i giornalisti del New York Times. Il fine è anche quello di facilitare il percorso politico di rappacificazione.

Pare che negli ultimi mesi uomini alcuni team speciali americani, abbiano visitato più volte Misurata, la città/stato che si oppone (in modo relativamente indipendente) a Tobruk. Lo stesso, secondo le fonti del NYTimes hanno fatto italiani, francesi e inglesi, nel tentativo di acquisire contatti militari e di intelligence; circostanza che conferma notizie note. Misurata si trova a poche ore di auto da Sirte, la roccaforte libica dello Stato islamico, dove quattro giorni fa i baghdadisti hanno crocifisso un uomo ritenuto di essere una spia di Alba della Libia (cioè l’ala militare del governo di Tripoli a cui partecipa anche Misurata).

Una milizia di Misurata, nota come Battaglione 22, è stata addestrata dagli americani al Camp 27 vicino a Tripoli fino al 2013, quando il training camp fu occupato da un’altra milizia e il programma fu sospeso. Il Battaglione 22 doveva trovarsi alla base di al Watiya quando a dicembre è arrivato il commando americano, erano loro che dovevano fornire il “caldo benvenuto”, ma invece la pista era controllata da un’altra milizia ancora, che, invidiosa dei legami occidentali del Battaglione, ha reagito aggressivamente all’arrivo degli americani. Questo è il quadro sul campo, che fa da sfondo al nuovo governo libico, che la corrisponde della BBC dal Nord Africa Rana Jawad ha descritto come un’intesa attuata solo per rispettare le scadenza.



×

Iscriviti alla newsletter