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Che cosa penso (da liberale) delle unioni gay

Ci risiamo. Da qualche settimana si ridiscute di legalizzazione delle unioni fra partner dello stesso sesso, di matrimonio fra gay, di adozioni, di “utero in affitto”, ecc. È materia di divisione politica, trasversale alla destra e alla sinistra. Dubito che questa volta se ne possa finalmente ricavare un osso dal buco, nonostante la determinazione di Renzi e della parte maggioritaria del partito di maggioranza.

A ricasco della discussione politica, come al solito, i giornali e gli opinion maker fanno la loro parte, riferiscono e si schierano, danno un contributo non irrilevante alla manfrina generale. Spesso mi capita che amici e conoscenti mi chiedano come io mi collochi fra le varie posizioni in campo, cosa pensi dell’oggetto in discussione e della discussione stessa. Ed è una domanda, lo ammetto, che mi lascia perplesso, titubante, indeciso.

Il fatto è che il mio animo di liberale è come diviso: da una parte credo fermamente, e non da oggi, nella libertà che ognuno ha di costruirsi la propria vita come meglio gli aggrada, senza che nessuno gli imponga la sua morale anche se la ritiene la morale tout court; dall’altra ho una altrettanto forte e credo sana diffidenza verso lo Stato regolatore delle faccende etiche: verso l’autorità pubblica che vuole entrare nelle vite private di ognuno e nelle loro libere e consensuali relazioni personali, fosse anche solo per regolarle o per stabilire per legge pretesi e presunti “diritti naturali”.

Questa giuridicizzazione della vita morale e dei costumi, cioè appunto dei mores, degli uomini, la giudico essa stessa errata e pericolosa, indipendemente dal segno che le si dà. Prendiamo Stefano Rodotà, che è un po’ il portabandiera di questo modo di ragionare molto diffuso e che lui piega al servizio di un’ideologia “politicamente corretta” e laica nel senso forte e astratto della laicité francese. Egli, in un fondo di Repubblica due giorni fa ha scritto esplicitamente che le unioni civili vanno riconosciute perché si tratta di salvaguardare i “diritti” e la “dignità” di ognuno. Poi ha aggiunto che la genitorialità è una “costruzione sociale”, cioè, in sostanza, non “naturale”. Su quest’ultima osservazione si può essere anche d’accordo, io lo sono, sol che ci si ponga in un’ottica sovrastorica e generale.

Ma allora se tutto è giustamente storico ed è un costrutto sociale perché a questo nostro destino si dovrebbe sottrarre un concetto scivoloso e vago qual è quello della dignità? Dignità di chi, nei confronti di cosa? E che confronto laico si potrà mai dare nell’agone pubblico se qualcuno sa già, prima che si inizi a discutere, ciò che è degno e va tutelato o “riconosciuto” e ciò che non lo è? In base a cosa qualcosa è un diritto, ed è quindi “naturale” e indiscutibile, in modo fisso e astratto, sottratto al libero rapporto delle relazioni umane e alla costruzione politica di un possibile compromesso? Non è anche il diritto un prodotto storico e, nel senso nobile della parola, politico? E in ogni caso può il diritto, con la sua pretesa di tutto prevedere e regolare, entrare nella sfera più intima degli uomini e, col pretesto di riconoscere loro una libertà e dei diritti che non hanno, stabilire a priori ciò che è giusto per loro, come singoli e comunità?

Rodotà, e con lui tanti altri, non vogliono sentir parlare di compromessi politici, né vogliono che lo Stato e il diritto arretri di fronte a tante questioni etiche concernenti la vita e le cose ultime. E’ vero, come pure si è detto in questi giorni, che la società su certe questioni è “più avanti” della politica e dello Stato, ma allora, mi chiedo, perché non limitarsi a riconoscere poche regole generali e di cornice e lasciare che le cose evolvano e maturino ulteriormente per conto proprio?

Perché non lasciar fare e vivere, e soprattutto pensare, chiunque col solo limite che non contrasti la pretesa altrui e riconoscendogli (questa volta sì è giusto usare il termine) la dignità ad esprimersi e ad essere contrastato non con le armi della morale ma con quelle del discorso e del ragionamento?



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