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Lunedì inizierà un nuovo ciclo di negoziati per la Siria, forse

Lunedì sarà il giorno della Siria: la diplomazia internazionale prepara da mesi l’incontro in programma a Ginevra il 25 gennaio, che dovrebbe stringere su una soluzione diplomatica condivisa dall’Onu e dagli attori in gioco per la crisi che insanguina Damasco da cinque anni. In teoria. Perché il tavolo negoziale potrebbe saltare ancora prima che qualcuno si sieda per trattare, e dunque non portare a nulla di buono come tutti gli altri vari talks tenuti finora.

LE NAZIONI UNITE

Il delegato Onu per la crisi siriana Staffan de Mistura qualche giorno fa intervistato dalla CNN ha detto che prima di domenica, cioè il giorno precedente all’appuntamento internazionale, non avrebbe potuto definire la data di inizio dei colloqui, che comunque sarebbero iniziati probabilmente «entro la fine di gennaio» 2016. Dire che è una dichiarazione che abbassa le aspettative è riduttivo.

Le Nazioni Unite non hanno troppo peso nelle dinamiche siriane, che dipendono in modo molto diretto da quello che succede sul campo, perché chi combatte difficilmente vuole sentir parlare di “politica”. Per il momento si limitano alle operazioni diplomatiche, chiedendo al governo di Damasco di lasciare aperti i passaggi di aiuti alle stesse popolazioni che il regime affama e bombarda come tattica di attacco militare contro le aree controllate dai ribelli (nota bene: non Isis).

Una delle cose che invece sta funzionando, ma è molto limitata, è la creazione di tregue puntuali, strettamente territoriali. Li chiamano “freeze” in gergo tecnico, e sono spesso fragili e utili per sbloccare situazioni particolarmente intricate come quella del quartiere al Waer di Homs dei primi di dicembre. Queste intese circoscritte, dovrebbero avere come obiettivo il diffondersi a macchia di leopardo, e poi allargarsi fino ad unirsi e creare la pace definitiva: un obiettivo al limite dell’utopia.

STATI UNITI, RIBELLI & CO.

Il vice presidente degli Stati Uniti Joe Biden, sabato, dalla Turchia, ha detto che Washington si sta preparando ad un’eventuale soluzione militare delle crisi, se il negoziato politico dovesse fallire. Su Twitter diversi commentatori hanno ripreso la dichiarazione come “improbabile”, il direttore editoriale di Politico Blake Hounshell s’è chiesto entro quanto tempo la Casa Bianca sarebbe intervenuta per minimizzare le parole di Biden, visto che è nota la volontà dell’Amministrazione di non farsi coinvolgere direttamente a livello militare; anche se ultimamente la strategia americana di approccio allo Stato islamico sta diventando più aggressiva, risolvere la crisi è un altro discorso.

John Kerry, il capo del dipartimento di Stato americano, si è limitato a dichiarare che la lista degli invitati al tavolo negoziale era in via di definizione. E qui sta il problema principale, perché a discutere a quel tavolo mancheranno diverse entità ribelli che non hanno alcuna intenzione di deporre diplomaticamente le armi e cercare una via politica di soluzione, e contemporaneamente sederanno partner negoziali che fomentano le stesse fazioni sul campo. Il New York Times sabato ha dedicato un lungo articolo al programma di aiuto ai ribelli siriani “diretto” dalla Cia, descrivendolo praticamente come l’unico legame che tiene ancora vivo il rapporto tra Stati Uniti e Arabia Saudita, eroso da questioni geopolitiche, come la riqualificazione iraniana, e di interessi economici, come la fine della dipendenza energetica che porta l’America a distanziarsi dalle vicende mediorientali. Nelle ultime due settimane sono ripresi i lanci di Tow, i missili anti carro forniti ai ribelli da americani, sauditi e turchi,  nell’ambito di quel programma, con cui le milizie anti-Assad colpiscono i carri del regime: si erano interrotte nell’ultimo mese, forse perché i russi avevano aumentato la copertura aerea di ogni cosa varcava il confine turco-siriano, sia perché chi forniva le armi voleva ricattare i gruppi sul campo perché smettessero di litigare tra loro e creassero un’unità da dirigere contro Damasco, hanno spiegato Paola Peduzzi e Daniele Raineri sul Foglio.

In tutto questo, va inserito lo Stato islamico, che quando si parla di ribelli non è incluso nella categoria, che è nemico di tutte le parti in causa, e che sul campo sta in effetti guadagnando terreno nonostante l’intervento russo.

LA RUSSIA, L’IRAN

Secondo un report firmato dalla rivista francese Intelligence Online, all’interno del regime siriano di Bashar el Assad si sarebbe formata una linea dura contro l’Iran, alleato storico e sostenitore pratico (economico e militare) di Damasco e rinnovato negoziatore al tavolo internazionale (invitato dopo la riqualificazione diplomatica post Nuclear Deal). La Siria si starebbe sempre più svincolando dalla pressione della Repubblica islamica per accomodarsi completamente sotto la protezione russa (aspetto che Mosca ha finora “condiviso” con Teheran). Le motivazioni di questa scelta starebbero nella visione troppo personalistica dimostrata dagli uomini della Guardia rivoluzionaria iraniana impegnati in Siria (e veri fautori della linea in politica estera dell’Iran, almeno nelle aree di crisi); cioè, i siriani si stanno accorgendo che l’obiettivo di Teheran non è proteggerli, ma prendersi una posizione forte sul futuro del paese. I fautori di questo allontanamento che sembra stia convincendo Assad sono pezzi grossi del regime: il ministro della Difesa Fahd Jassem al Freij, che l’anno scorso in aprile alla richiesta fatta al pari ruolo iraniano di aiuti in uomini e armamenti da usare a discrezione di Damasco s’è visto rispondere picche; Bahjat Suleiman, influente figura alawita, ex capo dei servizi di sicurezza interna, che non ha mai nascosto la propria antipatia per Teheran; Jamil Hassan e Kosai Maihoub, rispettivamente capo e vice della potentissima intelligence dell’aviazione. Hassan è un intimo del Cremlino ed era strettamente legato a Igor Sergun, il comandante dei servizi segreti militari russi, Fsb, morto il 3 gennaio in circostanze misteriose. In ultimo, anche il capo del National Security Bureau, Ali Mamlouk è allineato su una posizione di allontanamento dall’Iran: Mamlouk ha studiato in Unione Sovietica ed è «molto apprezzato» dal capo del servizio segreto estero di Mosca, Svr, Mikhail Fradkov e dall’ex direttore dell’Fsb. Intell Online scrive che Mamlouk «preferisce l’autorità russa alla teocrazia iraniana»: Mosca starebbe pensando da tempo a lui come possibile sostituto di Assad da mettere sul tavolo per una transizione politica ed una soluzione diplomatica della crisi.

IL NODO ASSAD

Il Financial Times ha una versione diversa della situazione, (ma sotto un certo aspetto complementare). Secondo una fonte appartenente ad un corpo di intelligence di un Paese europeo che ha parlato con i giornalisti inglesi, l’intervento russo in Siria (iniziato a settembre 2015) ha raggiunto il suo massimo sforzo ─ forse è complice anche la condizione economicamente non rosea della casse di Mosca. Per questo Vladimir Putin starebbe cercando «sotto il cofano del regime siriano», ossia, vuole trovare un sostituto ad Assad, e presto. Poche settimane prima della sua morte, Sergun sarebbe stato inviato in missione speciale a Damasco, dove in un incontro con il presidente siriano gli avrebbe comunicato la linea di Mosca. “È tempo che tu ti faccia da parte, il paese non ha futuro con te come presidente”, per la fonte del quotidiano inglese sono state queste più o meno le parole usate da Sergun. Se si sommano queste informazioni a quelle di Intelligence Online, si ottiene che se è vero che il regime siriano si sta spostando completamente verso Mosca, Assad resta sempre più isolato, e i russi hanno già in mente il sostituto: ossia Mamlouk. Diversi analisti da tempo sottolineano che le volontà russe non sono tanto lasciare al suo posto Assad, ma piuttosto quelle di mantenere lo status quo di potere nelle mani del regime (e di deciderne la futura leadership). A dividere la coalizione a guida americana dalla coalizione a guida russa è da sempre il destino di Assad. Ora la Russia si presenta ai negoziati con un piano chiaro. Gli Stati Uniti hanno da tempo rinunciato alla rimozione del presidente siriano, non vogliono giocare frettolosamente, e forse potrebbero allinearsi con Mosca (che un piano ce l’ha).

 

 


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