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Perché il vero nodo del ddl Cirinnà è l’adozione

Laura Boldrini e Nichi Vendola

La legge sulle unioni civili, che arriverà in Senato il 28 gennaio, sta determinando, come era logico e giusto aspettarsi, un dibattito molto forte e intenso. È, d’altronde, talmente tanto conosciuta la materia della discussione che appare inutile intervenire di nuovo nel merito della legge, anche se tante osservazioni potrebbero, ovviamente, essere fatte.

Una considerazione invece è interessante che si rivolga al significato politico, vale a dire ad alcuni contenuti sostanziali che ineriscono le parti in lizza e gli ideali che ne ispirano il dibattito.

Se venisse approvato, infatti, il ddl Cirinnà si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione legale e sociale. Per la prima volta non soltanto verrebbe indebolita l’idea stessa di matrimonio su cui si fonda la nostra civiltà, indebolimento per altro già in atto da alcuni decenni, ma si introdurrebbe una nuova forma legale e un nuovo criterio essenziale nella definizione pubblica di un rapporto tra due persone.

Questa legge, a ben vedere, spinge su due versanti la definizione matrimoniale. Da un lato, punta a separare l’idea di matrimonio da quella di famiglia naturale, dove con questa espressione si fa riferimento ad un’unione che sancisce a livello sociale la condizione giuridica della genitorialità (un padre e una madre), ma, dall’altro, introduce la possibilità che persone che per oggettiva condizione antropologica non possono generare figli siano in condizione, se decidono di impegnarsi pubblicamente, di avere gli stessi reciproci diritti e gli stessi reciproci doveri di due coniugi eterossessuali. Il tema delle adozioni gay sta tutto qui.

Guardando la cosa da questo punto di vista, ci si rende conto subito che la questione ha una sua attinenza logica e una sua insensatezza. Voglio dire che se due persone che si vogliono bene vogliono essere messi in condizione di avere tutele e assistenza reciproca è assurdo impedirglielo. Uno Stato laico non può e non deve farlo. Se poi vogliamo chiamare matrimonio questa unione civile, per quanto contrasti intuitivamente con il concetto che ne abbiamo e che la Costituzione indica, si può soprassedere senza particolari problemi.

Ora lo squallore, ci sia concesso dire, del confronto corrente è che vede contrapporsi su questa linea due atteggiamenti che sono in ambo i casi ideologici e sbagliati. Uno è quello di chi ritiene di dover difendere attraverso una concezione univoca del matrimonio tradizionale l’idea naturale di famiglia. L’altro invece di chi in nome di diritti individuali legittimi vuole ampliare il concetto di famiglia facendolo rientrare surrettiziamente nel concetto di matrimonio allargato alle unioni civili.

Conservazione e rivoluzione, in questo senso, mostrano una reciproca fragilità e una sostanziale superficialità.

Il punto decisivo sta nel differente tipo di entità sociale che è descritta dal concetto di matrimonio e da quello di famiglia. La visione tradizionale implica, infatti, che in nome di una realtà familiare, dotata di uno statuto metafisico e biologico permanente e proprio, si costituisca la forma giuridica del matrimonio come tutela del nascituro e come principio di stabilità monogamica dei coniugi. Non a caso il matrimonio era indissolubile e non si potevano riconoscere figli al di fuori di esso. Oggi, però, lo sganciamento tra matrimonio e famiglia è un dato di fatto. Due conviventi che hanno figli sono una famiglia. Un divorziato che si risposa o convive e fa dei figli in seconde nozze o in una seconda relazione costituisce una seconda famiglia. L’idea di famiglia già da tempo non dipende più dal matrimonio: dipende dalla generazione della prole, vale a dire dall’esistenza di figli che devono essere tutelati responsabilmente da chi biologicamente li ha messi al mondo, almeno fin quando è possibile e fin quando essi stessi non provvedano a farlo da soli.

Pertanto difendere il vincolo giuridico tra famiglia e matrimonio, ideale bellissimo e ovviamente criterio massimo di perfezione sociale, è tanto errato quanto sostenere che il matrimonio tra due persone non in grado di generare la vita sia di per sé una condizione familiare. Il nodo riguarda le adozioni. Siccome le adozioni implicano che due persone idonee ad avere figli, che non possono averli, possano avere in adozione figli non naturali, è quanto mai importante che il criterio per attribuirsi questo diritto non dipenda dal matrimonio ma dall’eterosessualità della coppia. Perché quella è la condizione biologica indispensabile per ovviare al dramma di un bambino adottato, il quale comunque ha due genitori naturali e vive, in ogni caso, anche nella famiglia adottiva del mulino bianco in una situazione di sofferenza.

Bene. La differenza tra matrimonio e famiglia è legata al fatto che con il termine famiglia s’intende un legame causale, generativo, naturale di tipo biologico tra due genitori e i figli che sono nati. Con il termine matrimonio invece s’intende un istituto giuridico legale che nasce in corrispondenza della famiglia, ma che, con ogni evidenza, può anche essere trasformato da questo originario legame o perfino legalmente abolito.

L’assurdo di questa confusione è che spinge a rinchiudere la diatriba attorno a conservazione o trasformazione di un concetto giuridico, quello di matrimonio, infilandoci dentro l’alterazione di un fondamento metafisico della società che è la famiglia, condizione umana costitutiva della generazione e della conservazione della specie umana.

Se, insomma, lo sbaglio delle associazioni gay è legato al fatto di volere una rivoluzione giuridica senza fondamenti antropologici, o addirittura contro di essi. L’errore della linea pro family, valida in sé, è di focalizzarsi sulla conservazione del matrimonio legale senza tener conto che ormai, purtroppo dico io, non è più attraverso esso, civilmente, che passa il rafforzamento della famiglia.

Papa Francesco, venerdì scorso parlando alla Rota romana ha spiegato che la famiglia è un forma metafisica permanente e suprema di realizzazione della vita umana, la quale richiede un matrimonio stabile e indissolubile. Venuto meno, tuttavia, un concetto giuridico univoco è inutile radicalizzare lo scontro in ambito politico, magari sacrificandoci sopra il valore stesso della famiglia e le sue necessità. Se la famiglia tornerà ad essere forte, tornerà ad essere forte anche il matrimonio naturale e costituzionale; non viceversa.

Avere una visione etica e sociale della famiglia oggi richiede di garantirgli uno statuto che oltre il matrimonio guardi all’aspetto demografico ed economico. Bisogna sostenere le nascite, e per farlo garantire che i rapporti eterossessuali, che le rendono possibili, siano salvaguardati, sostenuti, finanziati rispetto a tutte le altre forme associative, matrimoniali o no che siano, che non garantiscono oggettivamente incremento della vita umana.

Inoltre, intervenire come ha fatto il presidente della Camera, Laura Boldrini, in un dibattito in corso al Senato, rappresenta un atto di grave irresponsabilità, vista soprattutto la complessità e la delicatezza della materia e il ruolo istituzionale ricoperto. In questo momento la famiglia è annichilita, distrutta da politiche sociali che non aiutano la natalità e che spingono le giovani coppie, sposate o no, a non fare figli. Altro che storie pro o contro i diritti civili.

La Francia ha scelto di investire sulla natalità. La Germania idem. Noi invece abbiamo ancora una sinistra che punta a rivoluzionare le basi sociali senza premesse antropologiche altrettanto solide. E un mondo conservatore pronto solo a fare battaglie di retroguardia che non rafforzano certo la stabilità matrimoniale e men che meno aiutano economicamente la crescita demografica delle famiglie.

Certo che un cattolico sa che i bambini vogliono genitori uniti per sempre. E lo sa in nome di una visione vocazionale, naturale e soprannaturale, del matrimonio. Ma oggi la politica dovrebbe occuparsi della famiglia, senza sterili ideologie di conservazione e senza devastarne in modo rivoluzionario e contraddittorio il significato in nome di diritti di adulti che finiscono per diventare abusi dell’infanzia, motivati unicamente dal puro e semplice egoismo personale.

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