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Cosa farà l’Italia in Irak

Nella mattinata di martedì, il consiglio dei ministri iracheno ha comunicato la decisione di assegnare i lavori di sistemazione della grande diga di Mosul alla ditta italiana Trevi, di Cesena. Il via ai lavori sarà successivo alla firma dei contratti e richiederà qualche altro passaggio amministrativo: le attività inizieranno probabilmente in primavera. Per l’Italia significa tornare subito a ragionare su quello che il premier Matteo Renzi aveva annunciato il mese scorso, ossia l’invio al fianco dei lavoratori della Trevi di un contingente di 450 soldati italiani con il compito di fornire protezione durante la ristrutturazione dell’infrastruttura in una delle aree più strategiche per lo Stato islamico.

SITUAZIONE CRITICA PER LA DIGA

Sabato i tenici iracheni della diga, che dopo diverse battaglie con l’Isis è tornata da qualche tempo sotto il controllo governativo, hanno deciso di riaprire le turbine dell’impianto idroelettrico. Una scelta forzata, perché la pressione dell’acqua all’interno dell’invaso rischiava di far collassare la struttura di contenimento; la scorsa settimana era stato il generale a capo del contingente americano in Iraq a lanciare l’allarme dell’imminente rottura delle arginature. Se da un lato alleviare la pressione aprendo l’impianto idroelettrico è una soluzione efficace a livello strutturale, dall’altro è chiaro che lo Stato islamico, che controlla Mosul (pochi chilometri a valle della diga), potrà utilizzare il ritorno del normale flusso di energia elettrica come un altro termine di propaganda: cioè farà passare tra i cittadini mosulawi il messaggio di essere un amministratore efficiente (vedete, abbiano ripristinato la corrente elettrica).

AUMENTA IL COINVOLGIMENTO ITALIANO

La decisione di inviare il contingente a supporto dei lavoratori nella diga, che si era portata dietro una serie di polemiche sia in Italia (i soldati sarebbero finiti in un’area molto calda, esposti a potenziali attacchi dell’Isis, a cui per traslato si sarebbe esposto anche lo stesso territorio italiano, e sarebbe stata una decisione che avrebbe potuto creare un precedente, con altre ditte operanti in territori difficili che avrebbero chiesto la protezione dell’esercito come fossero contractors privati; questi gli argomenti) come in Iraq (dove le posizioni più intransigenti sciite minacciavano che la presenza italiana sarebbe stata vista come un’invasione straniera), potrebbe essere discussa al consiglio dei ministri in programma venerdì, e poi essere calenderizzata per il via libera parlamentare.

Venerdì è molto probabile che verrà votato anche l’invio del gruppo di 130 uomini dell’esercito, affiancati da qualche elicottero, che andranno a rinfoltire il contingente italiano già presente ad Erbil, nel Kurdistan iracheno: la decisione è stata presa dal governo italiano dopo la richiesta di maggiore impegno avanzata agli alleati (e all’Italia direttamente) dal Pentagono, ribadita personalmente martedì dal segretario di Stato John Kerry che insieme all’omologo italiano Paolo Gentiloni ha presieduto a Roma il vertice dello Small Group, ossia i principali paesi della Coalizione US-led che combattono il Califfato.

Il compito di questi soldati sarà il Personnel Recovery (in gergo tecnico PC), come confermato da fonti governative a diversi media italiani. Il dettaglio sull’incarico può sembrare di relativa importanza, ma invece nasconde dietro una forte decisione politica e una linea sull’impegno: il PC rappresenta un aumento del coinvolgimento italiano nel conflitto allo Stato islamico, perché è di per sé un compito di guerra. Personnel Recovery significa compiere operazioni di recupero di personale ferito, rapito o disperso, anche in ambienti ostili. In Italia ad occuparsi di questo genere di attività sono le forze speciali del 17° Stormo incursori dell’Aeronautica Militare di stanza a Furbara (nord di Roma) che opera sotto il Comando interforze per le operazioni delle Forze speciali (COFS).

Più che il numero totale (circa mille uomini) che farà essere quello italiano il secondo contingente più folto in Iraq dopo gli Usa, ad essere rappresentativo è proprio l’incarico che avranno i 130 nuovi soldati: un passaggio che sta a significare che anche Roma si allinea alla nuova strategia statunitense.

E non è detto che i militari di Roma, che si troveranno già sul posto, non possano giocare un ruolo centrale nella futura offensiva che la Coalizione guiderà per riprendere Mosul dalle mani del Califfo.

 

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