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Cosa combinano Berlusconi, Salvini e Meloni a Milano e Roma

Intellettuale, militante e a lungo parlamentare orgogliosamente di destra, Gennaro Malgieri è giustamente indignato di fronte alle condizioni in cui è ridotta la politica. E ha qui denunciato ciò che sta accadendo nelle grandi città dove si voterà in primavera, e i candidati a sindaco già scelti o ancora da scegliere, di sinistra ma anche di destra, sono accomunati dalla loro “intercambiabilità”. Cioè, dalla disinvoltura con la quale si collocano politicamente, o si lasciano collocare da partiti che, non riuscendo più a produrre al loro interno classe dirigente con una sana miscela di competenza, formazione, militanza e passione politica, la cerca altrove. In particolare, in quella che viene chiamata società civile, al netto degli abusi che si fanno dell’aggettivo.

Abituato nella sua esperienza politica, almeno sino all’avvento della cosiddetta seconda Repubblica, a ben altra selezione di candidati, amministratori e dirigenti, l’amico Malgieri rimpiange i vecchi partiti: quelli insomma della tanto vituperata prima Repubblica, che in genere non furono “personali”, neppure quando erano guidati da leader autentici. Che in effetti li dirigevano senza sentirsene ed esserne padroni.

Giorgio Almirante, per cominciare col partito di provenienza di Malgieri, fu il leader e non il padrone del Movimento Sociale. Come Palmiro Togliatti e poi Enrico Berlinguer non furono i padroni del Pci. Né Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani e Aldo Moro furono negli anni del loro potere i padroni della Dc. Neppure Bettino Craxi, a dispetto delle apparenze, riuscì mai a diventare padrone del Psi, con le cui correnti era costretto a fare i conti.

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Al massimo, in quei vecchi partiti, di personali potevano nascere e prosperare, appunto, le correnti. Che non mancarono ad un certo punto neppure nel Pci, dove certamente regnava più disciplina che altrove. Una disciplina che lo aiutò peraltro ad uscire quasi indenne, diversamente dagli altri, dal ciclone giudiziario di Tangentopoli, pur essendosi anch’esso finanziato illegalmente.

Non sarebbe bastata la benevolenza della magistratura, lamentata dagli avversari decimati dalle indagini, dagli arresti cosiddetti cautelari e dai processi, a salvare il Pci e sigle successive se non ci fosse stata la disciplina interna.

Nel Pci, o come diavolo si chiamava in quel periodo, non ci fu, come invece nel Psi, un ex segretario corso negli uffici della Procura di Milano per togliersi i sassolini dalle scarpe e aiutare gli inquirenti a colpire il segretario in carica con la formula del “non poteva non sapere”. Nessuno si mosse da via delle Botteghe Oscure per raccontare ad Antonio Di Pietro e colleghi, o superiori, a chi Raul Gardini avesse materialmente consegnato quel miliardo di lire dell’affare Enimont portato nella borsa di cui lo stesso Di Pietro ha recentemente e beffardamente parlato di recente commentando la rievocazione televisiva delle sue indagini.

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Di quella disciplina, nell’ultima versione del Pci, che è pur sempre il Pd, avrebbe forse bisogno Matteo Renzi al servizio del suo tentativo di profittare appieno della crisi del centrodestra prendendone voti e persino classe più o meno dirigente. Un tentativo che la sinistra ex comunista e democristiana, o quel che ancora ne rimane, non gli perdona un po’ per una specie di razzismo politico, un po’ o soprattutto perché, già considerandolo culturalmente o – direbbe il solito senatore bersaniano Miguel Gotor – antropologicamente diverso, teme che egli possa diventare il padrone del vapore, sino a chiamarlo Partito della Nazione. Loro, poi, soprattutto quelli della sinistra ex comunista, che consideravano e persino chiamavano il proprio partito “la ditta”. Dove gli affari o quanto meno le convenienze prevalgono d’ufficio sugli ideali. Una ditta sperimentata, d’altronde, già dall’allora ministro della Giustizia Togliatti amnistiando i fascisti per assorbirne meglio i resti, e non solo per i conclamati propositi di pacificazione. I voti e gli uomini fascisti si potevano allora corteggiare e assorbire, quelli del centrodestra di conio berlusconiano oggi no.

Accade così a Milano che le sinistre interne al Pd e limitrofe hanno prima tentato, fallendo per le loro solite divisioni, di bloccare la candidatura a sindaco di Giuseppe Sala, già principale collaboratore a Palazzo Marino della berlusconiana Letizia Moratti, che lo volle anche al vertice dell’Expo. E poi, non piacendo gli occhi a mandorla di un migliaio di persone su sessantamila che lo hanno votato nelle primarie, sino a chiamarle “plimalie” col solito Marco Travaglio, già organizzano la fronda elettorale con altre liste e candidati per fargli perdere la partita nelle urne vere. Come avvenne già l’anno scorso in Liguria per la reazione di un altro “cinese” di casa, Sergio Cofferati, sconfitto nelle primarie.

Così l’odiato Berlusconi potrà forse ripetere a Milano con un altro Toti di turno, magari Stefano Parisi, predecessore di Sala a Palazzo Marino quand’era sindaco il berlusconiano Gabriele Albertini, il miracolo ligure. E replicare l’operazione a Roma, non certo però con Rita dalla Chiesa, lanciata e affondata in poche ore nel centrodestra dalla sorella ingravidata dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni contro nonni, genitori e parenti di sinistra del candidato Alfio Marchini, anche se la sinistra ancora in carne e ossa è, come sempre, divisa fra tutt’altri nomi.



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