Tanto di cappello a quell’irriducibile rompiscatole di Giampaolo Pansa, come lui stesso ha voluto definirsi, per non usare un aggettivo ancora più diretto ma volgarotto, nel libro autobiografico ancora fresco di stampa.
A 80 anni ormai suonati, ma portati magnificamente, gli sono rimaste intatte la curiosità, l’abilità e l’umiltà del giovane cronista. Per cui, di fronte al dramma del centrodestra romano, o di quel che ne rimane, ridottosi sulla strada del Campidoglio a distrarre dai suoi processi Guido Bertolaso, con tutti i rischi di strumentalizzazione che in campagna elettorale corrono le vicende giudiziarie, si è presa la briga di chiamare al cellulare Alfio Marchini per farsi raccontare e spiegare senza i soliti infingimenti circostanze e ragioni del fallito corteggiamento politico fattogli a lungo da Silvio Berlusconi. Che aveva giustamente visto in lui il candidato ideale da adottare o comunque sostenere a sindaco: giovane, imprenditore, piacente, proveniente da sinistra ma stanco di aspettarne un’autentica modernizzazione, già scontratosi proprio per questo con essa nelle precedenti elezioni comunali, decisivo infine per la chiusura notarile della schizofrenica avventura politica della giunta rossa di Ignazio Marino fra i miasmi di Mafia Capitale.
Pansa non si è fatto abbindolare dalla rappresentazione di un Berlusconi piegato dalla resistenza della grintosa sorella dei Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ed è riuscito a tirare fuori con le pinze del dentista dalla bocca di Marchini la verità. Che potrà sembrare una lettura troppo banale, superficiale e personalizzata della vicenda ma è semplicemente la più logica, almeno per chi ha avuto modo di conoscere e frequentare davvero Berlusconi. Del quale il nostro comune amico Arnaldo Forlani suole dire che ha tante virtù e alcuni difetti, rammaricandosi del fatto che sono piaciuti a lungo ai suoi elettori più i secondi che le prime.
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Tra i difetti di Berlusconi, magari giustificati da una realtà anomala com’è la politica italiana, e la situazione del centrodestra in particolare, viste le prove date sinora dai suoi concorrenti, c’è quello di considerarsi insostituibile. A questa convinzione si aggiunge la volontà, non sempre conciliabile, di piacere. Per cui può capitargli, magari inconsapevolmente, di “impazzire di rabbia” – ha detto Marchini – se qualcuno riesce davvero a “sedurre il suo ambiente”, come avrebbe fatto appunto lui, sino a sfiorare Fedele Confalonieri. Che ha con Berlusconi un rapporto ineguagliabile, vi assicuro, di collaborazione, amicizia, affetto.
Giorgia Meloni, secondo l’impressione percepita da Marchini, avrebbe dunque affondato il coltello nel burro, ormai, di Berlusconi opponendosi alla candidatura, secondo lei, ancora troppo di sinistra dell’imprenditore romano, sino a contrapporle nel centrodestra, sia pure per meno di una giornata, quella della conduttrice televisiva Rita dalla Chiesa. Che peraltro nelle scorse elezioni comunali di Roma, meno di tre anni fa, votò proprio per Marchini: circostanza sfuggita evidentemente alla Meloni e forse dimenticata dalla mia amica Rita in quel galeotto incontro al bar con l’aspirante leader della destra italiana: quando si emozionò tanto all’offerta della candidatura da lasciare sciogliere il gelato alla nocciola che le era stato appena servito, secondo il racconto onestamente fatto da lei stessa ad un cronista. Al quale Rita, commentando l’ormai superata e da lei rifiutata candidatura, ha anche rivelato che sarebbe stata, nell’improbabile caso di vittoria elettorale, una sindaca “di strada”, nel senso naturalmente buono o innocente della parola. Una sindaca cioè alla mano, impegnata più a incontrare il pubblico che a chiudersi in un ufficio, sia pure bellissimo come quello del primo cittadino di Roma, con vista mozzafiato sui Fori imperiali.
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Della vivace resistenza opposta dalla Meloni a Marchini, per quanto uscito ormai di suo dall’interesse di Berlusconi, mi ha colpito il giudizio datone da Pietrangelo Buttafuoco, che conosce la destra molto meglio di me. E ha scritto sull’ospitalissimo Fatto Quotidiano di “uno stupido potere di veto proprio di una banda di furbastri”, ridottasi a “garantire famigli e familiari nel rantolo di uno scranno al Consiglio Comunale”. Un giudizio forse eccessivo, che spero non abbia allarmato più di tanto il povero Bertolaso, ormai alle prese con l’emergenza forse più difficile della sua carriera alla Protezione Civile: la scalata al Campidoglio.
Persino il buon Mattia Feltri, accusato dal padre Vittorio di avere appena raccontato in un libro come una barbarie il 1993, il presunto anno epico dell’inchiesta giudiziaria chiamata Mani pulite, ha cominciato sulla Stampa a ironizzare sul candidato del centrodestra per un suo vecchio annuncio di “non avere mai votato Berlusconi”. E soprattutto sulla “ripassata” tangentizia, secondo gli inquirenti, o “rilassata” fisica, secondo lui, di una intercettazione giudiziaria sulla strada della confortevole palestra del Salaria Sport Village.
Se questa è la minestra di un garantista a 24 carati come il bravo Mattia Feltri, figuriamoci quella che Bertolaso dovrà attendersi da qui alle lontane votazioni di giugno dai forcaioli che affollano, oggi come l’altro ieri, le cucine di sinistra delle campagna elettorali e processi limitrofi.