Anche la morte di Umberto Eco è un segno. Va interpretata, ma non come un evento naturale che ci sottrae un acume ed una saggezza rara, insondabile epilogo della vita di ogni uomo. E’ il segno della inevitata accettazione della scomparsa della realtà, della stessa capacità di poterla interpretare perché ne manca la rappresentazione.
Ieri, ad esempio, la Russia ha chiesto la convocazione urgente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, paventando i rischi di un intervento della Turchia sul territorio siriano: di questa realtà non si dà notizia, tanto meno in prima pagina, nei numerosi quotidiani che invece mostrano profondo cordoglio per la morte del romanziere, saggista, semiologo.
Celebrano Umberto Eco, colui che aveva intuito la fondamentale assunzione del nostro tempo, che induce ad interpretare come reale, e non come rappresentazione virtuale e comunque deformata, l’immagine del mondo proiettata nello specchio. Ciò che appare nello specchio è la realtà, ciò che non appare nello specchio non esiste. Una contraddizione logica diviene così la base razionale di ogni giudizio.
La lunghezza sterminata dei suoi romanzi più noti, che molti hanno comprato senza tuttavia avere la forza di riuscire a leggerli interamente, era volutamente paradigmatica della incapacità di conoscere il mondo. Le narrazioni pedisseque, i tortuosi ricami letterari, gli intricati intrecci di eventi e di considerazioni, servivano tutti a fare perdere l’orientamento al lettore, così come avviene quando cerca di destreggiarsi nella realtà di tutti i giorni.
Di converso, c’era la brevità delle considerazioni sull’attualità contenute nella sua rubrica settimanale intitolata “La bustina di Minerva”, che appariva su L’Espresso. Non per un caso, la rubrica era pubblicata in ultima pagina: era un intervento su ciò che sarebbe altrimenti mancato, il segno della inevitabile incompletezza della narrazione della realtà. L’ultima pagina rimarrà bianca.