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Renzi, Monti e i postini

So bene che non è giusto, come mi diceva un Indro Montanelli insolitamente indulgente, che non si può impiccare nessuno a una parola, o a una frase infelice. Specie se decontestualizzata, come Montanelli, sempre lui, non mi avrebbe mai permesso di scrivere perché il mitico “lattaio dell’Ohio”, versione americana del suo buttero toscano, non avrebbe capito. Ma non riesco questa volta a resistere alle tentazioni delle ultime cronache politiche.

Mario Monti, talmente sfinito per la polemica da lui stesso ingaggiata con Matteo Renzi nell’aula del Senato sui rapporti con Bruxelles e con Berlino, e rilanciata dal presidente del Consiglio di ritorno dall’ultimo vertice europeo riferendone all’Assemblea Nazionale del suo partito, si è arreso all’assedio giornalistico di Luca Telese, del supercritico Libero. Ed ha così spiegato la propria filosofia dei rapporti con la Germania, dove è notoriamente ritenuto “il genero ideale”, per quanto ormai anzianotto, dalle mamme che vi vivono: “La Germania è considerata nell’Unione Europea un Paese più forte. E appartiene alla natura umana essere o mostrarsi vicini al più forte”. Chiaro, anzi chiarissimo.

L’allora giovane, o giovanissimo, Monti non avrebbe forse condiviso a metà degli anni Sessanta una polemica avuta col governo americano dal dimissionario ministro italiano degli Esteri Amintore Fanfani, progenitore politico di Renzi per toscanità e formazione culturale.

 

Accusato negli Stati Uniti, in piena guerra del Vietnam, di avere ispirato o spalleggiato un viaggio del sindaco democristiano di Firenze Giorgio La Pira e dell’amico Mario Primicerio ad Hanoi, via Pechino, per tentare una mediazione in quel momento non gradita a Washington, Fanfani contestò la concezione che alla Casa Bianca si mostrava di avere dei rapporti fra gli alleati. Il più forte si aspettava l’allineamento dei meno forti, o più deboli.

Se così stessero le cose – disse Fanfani alla Camera, anche a costo di mettere in imbarazzo il presidente del Consiglio e collega di partito Aldo Moro, “comprensivo” verso il governo americano – potremmo anche fare a meno in Italia del  Ministero degli Esteri “bastando quello delle Poste”. Di cui forse Monti vorrebbe ora il ripristino per tenere, nell’Unione Europea, i rapporti con Berlino e la succursale belga. Si ricevono le disposizioni e si eseguono.

 

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Achille Occhetto, sulla soglia ormai degli 80 anni, artefice dello scioglimento formale del Pci dopo la caduta del muro comunista di Berlino, e poi staccatosi dalle riedizioni perché non conformi ai suoi progetti tropo innovativi, ha appena confidato al Fatto di vivere felicemente in solitudine. Felicemente, ha spiegato, perché non si sente più “disturbato” dai vecchi compagni. Evidentemente neppure da quelli che, rottamati da Renzi nell’ultima e composita versione del Pci, allargata ai resti della sinistra democristiana, potrebbero invece capire umanamente e scusarsi delle sofferenze procurate a lui nel 1994, quando lo rimossero dalla mattina alla sera per avere perduto le elezioni guidando contro Berlusconi una improvvisata e “gioiosa macchina da guerra”. Gli sarebbe forse bastato corteggiare di più e candidare a Palazzo Chigi Mario Segni, come due anni dopo il suo successore Massimo D’Alema avrebbe fatto con Romano Prodi sconfiggendo il Cavaliere di Arcore, indebolito nel frattempo dalla temporanea rottura con Umberto Bossi.

Ora Occhetto si ritrova solo con i suoi ricordi, tanto da considerare “casa mia la memoria”, dalla quale spero che non abbia rimosso il suicidio procurato alla sinistra cavalcando contro l’odiato Bettino Craxi la vicenda giudiziaria di Tangentopoli, pur consapevole della partecipazione anche del Pci alla pratica del finanziamento illegale della politica.

Craxi, certo, ne morì, in tutti i sensi. Ma i suoi avversari conseguirono la classica vittoria di Pirro, viste le condizioni in cui la sinistra è ridotta, capace solo di produrre le solite, rovinose lotte intestine. A favore di Berlusconi ieri, di Renzi oggi, di Grillo forse domani.

 

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A Grillo, certo, la fantasia non manca, come comico ma anche come politico. Ha purtroppo del vero il paragone impietoso ch’egli ha fatto fra quella parte del Pd che voleva portare a casa con l’aiuto dei senatori pentastellati la disciplina delle unioni civili nella versione più spinta e controversa, forzando all’inverosimile logica e regole parlamentari, e gli scorpaccioni della “mano morta”. Quelli che in autobus toccano il sedere alle donne insistendo se non incontrano rifiuti e accusandole, in caso contrario, di avere preso loro l’iniziativa.

Va bene che siamo in pieno Giubileo della Misericordia, ma le mani negli autobus affollati di Roma vanno tenute al loro posto.

 


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