La Libia non è Tripoli e Tobruk, ma decine di tribù e di milizie armate; la Libia non è solo l’Isis, ma anche altre organizzazioni terroristiche più o meno legate ad al Qaeda; dunque, se l’Italia sarà coinvolta in un’operazione militare, quello libico rappresenta «uno degli scenari più complessi e ricchi di incognite in cui le Forze armate italiane si possano trovare a operare». La migliore sintesi di ciò che realmente abbiamo di fronte dall’altra parte del Mediterraneo è contenuta in un accuratissimo report del Centro studi internazionali, presieduto da Andrea Margelletti, inviato al mondo politico e istituzionale con un garbato sottinteso: leggete attentamente prima di qualunque decisione.
L’IMPORTANZA DELLE MILIZIE
L’errore fondamentale commesso dall’Onu e in genere dalla diplomazia internazionale, scrive il Cesi, è aver coinvolto solo i parlamenti di Tripoli e di Tobruk e non anche i rappresentanti delle milizie e delle tribù, cioè «gli attori politici e militari che controllano e amministrano il territorio, posseggono il potere reale e non sono assolutamente disposti ad accettare una riorganizzazione dello Stato che non garantisca loro adeguati benefici». Ecco quindi che una coalizione di volenterosi che affiancasse l’ipotetico Governo di unità nazionale (che resta per ora una chimera) «darebbe al conflitto libico una marcata sfumatura internazionale» trasformando il latente sentimento anti-occidentale in un collante del quale potrebbe approfittare lo Stato islamico. La linea indicata dagli autori del report (Gabriele Iacovino, Francesco Tosato, Marco Di Liddo e Stefania Azzolina) è chiara: una strategia militare deve necessariamente comprendere precisi obiettivi politici «tra i quali spicca quello di riconciliare fazioni in conflitto da anni e reintegrarle nel futuro apparato statale libico». D’altra parte, il supporto delle milizie è indispensabile per controllare il territorio, limitare le violenze e aiutare i contingenti stranieri a muoversi dentro confini enormi.
UNA REALTA’ FRAMMENTATA
Le milizie sono riunite in due grandi gruppi riferibili ai parlamenti di Tobruk e di Tripoli. Il primo conta al momento su circa 110.000 uomini suddivisi in otto milizie, una rete inquadrata nella campagna anti-islamista lanciata dal generale Khalifa Haftar nel maggio 2014 e chiamata «Operazione Dignità». Tra di esse, c’è la Guardia delle Infrastrutture petrolifere, paramilitari probabilmente finanziati da multinazionali che hanno interessi in Libia. Il parlamento di Tripoli, invece, dispone di circa 100.000 uomini protagonisti nel giugno 2014 dell’operazione «Alba libica» contro Haftar e il governo di Tobruk. Si tratta di sette organizzazioni paramilitari tra le quali, come esempio di ulteriore frammentazione, c’è il Comitato supremo di sicurezza che raggruppa 70 milizie attive a Tripoli e nei dintorni.
LA NASCITA DELL’ISIS E IL PETROLIO
Tra il 2011 e la prima metà del 2014 è stata Ansar al-Sharia la realtà jihadista più influente, poi ridimensionatasi sia per il malcontento interno che per gli attacchi nell’ambito dell’«Operazione Dignità». Lo Stato islamico, spiega il Cesi, ne ha approfittato e il primo embrione in Libia è stato costituito dal gruppo Battar, poche decine di foreign fighters rientrati da Siria e Iraq, che rapidamente ha inglobato gruppi salafiti e lealisti gheddafiani. L’Isis, a quanto pare, è più intelligente dell’Occidente perché riesce a penetrare a sud, nel Fezzan, e a ovest della Tripolitania accollandosi le istanze tribali e le rivendicazioni di chi non è rappresentato dagli schieramenti ufficiali. Così facendo, controlla le aree utilizzate per traffici illeciti di armi, esseri umani e droga. I miliziani dello Stato islamico in Libia, secondo il Cesi, dovrebbero essere circa 3.500-4.000, dei quali tra i 1.000 e i 1.200 appartenenti allo zoccolo duro di ideologi e leader militari e politici. Numeri che possono aumentare con eventuali nuove alleanze. L’obiettivo potrebbero essere le infrastrutture petrolifere perché l’Isis non può sopravvivere solo con i traffici illeciti ma «necessita del flusso di denaro proveniente dal mercato nero di petrolio e terre rare». Purtroppo, la sicurezza di tutte le infrastrutture energetiche presenta forti criticità, tanto che nelle ultime settimane attacchi sporadici a terminal petroliferi sembrano sistematici e non più occasionali. L’Eni in Tripolitania ha tre giacimenti di petrolio e due di gas, la British Petroleum è presente nella regione centro-orientale e i francesi della Total sono nella zona di Sirte e di al-Sharara.
IL RUOLO DELL’ITALIA E I RISCHI
E’ abbastanza probabile che, in caso di intervento militare di Francia, Gran Bretagna e Italia, la suddivisione delle aree seguirebbe gli insediamenti nazionali: britannici a Est in Cirenaica, francesi a Sud nel Fezzan e italiani a Ovest in Tripolitania. Dunque, al contingente italiano toccherebbe una gatta da pelare come Tripoli, 1,1 milioni di abitanti e, scrive il Cesi, «in uno stato di anarchia in preda agli appetiti di diverse milizie armate in lotta tra loro». Inoltre, i militari dovrebbero probabilmente proteggere anche infrastrutture strategiche tra cui l’impianto di gas di Mellitah, a 100 chilometri a Ovest della capitale. A questo si aggiungerebbe lo scontato ruolo di addestramento delle forze di polizia e delle nuove forze armate libiche. Inoltre, il contingente italiano dovrà garantirsi un porto e un aeroporto per i rifornimenti. Durante la rivoluzione del 2011 gli arsenali vennero saccheggiati e oggi tutti hanno ogni tipo di arma. Dunque, gli italiani potrebbero essere obiettivi di «cecchini, autobombe, attentatori suicidi, Ied (ordigni esplosivi improvvisati) e sommosse popolari». I terroristi potrebbero replicare ondate di blindati-bomba già usate in Siria e in Iraq e comunque dispongono di vecchi carri armati T-55 e pick-up armati di tutto, da cannoni anticarro e antiaerei a mitragliatrici pesanti. Insomma, la Libia è una «polveriera a cielo aperto» e quindi, scrive il Cesi, «il dispositivo militare italiano da schierare dovrebbe essere commisurato non tanto alle supposte intese politiche, quanto alla possibile realtà sul terreno in caso di totale disaccordo tra le diverse fazioni libiche». Il titolo del report dice tutto, la Libia è a un bivio: «Riconciliazione o fallimento».