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Cosa succede all’Unità renziana di D’Angelis

L’Unità di conio renziano diretta da Erasmo D’Angelis non ha deluso neppure nell’approccio con le notizie che riguardano i suoi affanni economici, se non addirittura il rischio di riscomparire dalle edicole. Cosa che purtroppo alla vecchia testata comunista fondata nel 1924 da Antonio Gramsci è già accaduto altre volte: nel 1926 per mano fascista, dopo l’arresto dello stesso Gramsci; nel 2000 per mano dello stesso partito di riferimento, sfiancato dai debiti, e nel 2014 per fallimento, dopo 13 anni di faticosissima, divorante gestione finanziaria e politica, cui non seppero supplire né la proverbiale fantasia, per esempio, di Walter Veltroni, fondatore nel 2007 dell’ultima e allargatissima edizione di quello che era stato il Pci, né la bonomia tutta aziendale e familistica, nel senso buono, del povero Pier Luigi Bersani. Che chiamava “ditta” il partito, e tutto ciò che gli ruotava intorno, compreso il giornale che, pur non essendone più l’organo ufficiale, ne esprimeva le pulsioni sotto la direzione più di giornalisti che di militanti. Di nomi non ne faccio perché temo di dimenticarne qualcuno e di fargli un torto che non merita, maschio o femmina che sia.

Riportata a forza nelle edicole meno di un anno fa da Matteo Renzi in persona assemblando amici imprenditori, in particolare il gruppo Stefanelli-Pessina, che spazia dagli immobili alle acque minerali, e il partito che dirige da Palazzo Chigi, attraverso una società – la Eyu – che detiene solo il 19 per cento della proprietà, l’Unità si trova nella scomoda situazione, comune tuttavia a molte altre testate, di destare curiosità più fuori che dentro le edicole. Con tutti gli effetti che ne derivano: perdendo, in questo caso, qualcosa come duecento mila di euro al mese, per cui si prevede al termine del primo esercizio di bilancio un rosso di quasi due milioni e mezzo. Cui si dovrà rimediare, per evitare un altro fallimento, col solito aumento di capitale. Una prospettiva alla quale sembra che Renzi si stia già preparando, e allertando gli amici, perché non ha alcuna intenzione di rinunciare ad un’avventura che ha, fra l’altro, il merito di ricordargli un po’ anche il mestiere imparato in famiglia: la diffusione del principale giornale della sua regione.

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Notizie raccolte e rilanciate qualche giorno fa dal Corriere della Sera, a firma di Claudio Bozza, attribuiscono a Renzi un misto di delusione e di rabbia per le difficoltà della storica testata di sinistra affidata alla direzione pur innovativa di Erasmo D’Angelis: un campano, originario di Formia, stabilmente insediatosi in Toscana, che ha saputo conciliare interessi diversi, dalla cultura all’idrologia, dal giornalismo alla politica, facendo il sottosegretario alle infrastrutture nel governo di Enrico Letta e trasferendosi poi con Renzi a Palazzo Chigi, o dintorni, per guidare una struttura di missione contro il dissesto del territorio.

D’Angelis è un uomo che non ho avuto il piacere di conoscere ma che, a guardarlo e a sentirlo parlare qualche volta in televisione, mi ricorda simpaticamente e fisicamente – pensate un po’ – il primo grande direttore di giornale conosciuto e frequentato nella mia vita, il cui nome forse non gli piacerà, o quanto meno lo sorprenderà: Giovanni Ansaldo. Che a Napoli, dove guidava Il Mattino, mi ricevette nel suo ufficio, quando ero uno studente universitario di legge e aspirante giornalista, consegnandomi dopo una chiacchierata di mezz’ora un bel po’ di libri da recensire. Fra i quali ce n’era uno di Milovan Gilas, già braccio destro del mitico presidente jugoslavo Tito e finito in disgrazia, e in prigione, a metà degli anni Cinquanta per avere previsto e analizzato il fallimento del comunismo.

La delusione di Renzi, tornando alla vicenda della nuova Unità, nasce naturalmente dalla realtà delle cifre della crisi del giornale, la rabbia dal sospetto, se non dalla convinzione, che le difficoltà della testata siano il frutto di un’azione di sabotaggio condotta all’interno del partito, ad opera soprattutto dei vecchi militanti comunisti, ma anche di qualche giovanotto poco convinto della svolta politica che porta il nome del segretario e presidente del Consiglio. Eppure, a conti fatti, sarebbe bastato che ogni circolo del Pd, ogni parlamentare, ogni consigliere regionale, e magari anche comunale, acquistasse una copia o sottoscrivesse un abbonamento per assicurare al giornale la diffusione necessaria anche ad una buona raccolta di pubblicità, evitando il salasso già ricordato di duecento milioni di euro di perdita al mese. Una cosa che ammazzerebbe anche un ippopotamo.

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La rabbia di Renzi, e penso anche di D’Angelis, per il sospetto o la convinzione di un boicottaggio di partito spinto all’autolesionismo s’intravede sulla stessa Unità nella vignetta di prima pagina dedicata proprio alla crisi del giornale. “Circoli e militanti Pd non comprano l’Unità”, fa dire Sergio Staino all’uomo. “La trovano troppo filo Pd”, fa commentare alla moglie.

Impareggiabili nella loro amara ironia. Quasi come Guido Bertolaso, il candidato, o quel che ne resta, del centrodestra a sindaco di Roma che ha commentato dal vivo le pre-primarie, o come diavolo si chiamano, promosse dai leghisti praticamente contro di lui, annunciando che, per quanto superato nei voti da Alfio Marchini, lui “va avanti come una ruspa”. Ma non per sgomberare i campi dei rom, come reclama Matteo Salvini, bensì per rimuovere i troppi alberi appena caduti a Roma per  incuria sotto un temporale.

Ci vorrebbe uno Staino pure per Bertolaso.

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