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Chiudere Guantanamo: sogni e guai di un presidente

L’ex capo dello stato maggiore congiunto della Difesa americana, il generale a quattro stelle Martin Dempsey, si sarebbe opposto palesemente al trasferimento di un detenuto dal supercarcere per terroristi di Guatanamo, ma sarebbe stato ignorato dall’Amministrazione. Lo scoop è stato fatto a dicembre dal Washington Free Beacon, sito di informazione americano apertamente neocon, che ha raccolto una testimonianza diretta del comandante in uno scambio di mail con il senior editor Bill Gertz. Il Free Beacon è spesso fazioso, e il suo giornalismo è stato accusato da Conor Fiedersdorf dell’Atlantic di essere «decadente e immorale»; il New York Times, giornale più orientato verso le visioni liberal, in un articolo del 2013 ha definito uno dei fondatori del sito Michael Goldfarb un provocatore partigiano anti-Obama, con «la fiamma ossidrica al posto della penna». Il Free Beacon dunque non è una fonte di informazione pura e indipendente, per questo della notizia “buona” sulla posizione dell’ex capo delle Forze armate americane rispetto al governo non se n’è parlato per niente, sebbene (la veridicità dello scambio di mail non è messa in discussione. ndr) fornisse un importante spunto di ragionamento lontano dal pensiero unico: chiudere Guantanamo, fissa del presidente Barack Obama dai tempi delle prime elezioni e ora probabilmente visione arrivata alla stretta legislativa conclusiva.

CHIUDERE GUANTANAMO

A fine febbraio, prima della storica visita del presidente americano a Cuba, forse per dare un ulteriore segnale di distensione nei rapporti, Obama è andato davanti ai giornalisti e ha annunciato un progetto concreto per la chiusura del campo di detenzione (in effetti a Cuba più della soppressione del carcere preme la restituzione dell’intera baia e la chiusura della base, avamposto storico contro la rivoluzione socialista, e non è escluso che in tempi di aperture l’Avana non si ritrovi a breve un pezzetto di territorio in più da amministrare). Per Obama Gitmo (il modo con cui Guantanamo viene chiamato negli Stati Uniti) è il simbolo di ciò che non serve contro il terrorismo: una questione molto più di politica interna che estera, perché il carcere, definito una sorta di lager, dove i detenuti vengono interrogati con ogni metodo, è un non-luogo, fuori dai confini americani, dove le stesse leggi americane (lo stato dei diritti e delle libertà ) non hanno quasi giurisdizione. Il “capo del mondo libero”, per dirla come la serie-Tv “Scandal” descrive il presidente, non può permettersi di mantenere operativa una struttura del genere: è questo il pensiero di Obama. Il problema, però, è che all’interno di quella struttura sono detenuti i più pericolosi ideologi jihadisti finiti (vivi) in mano alle forze americane: elementi che non hanno alcuna intenzione di redimersi e che in varie occasioni una volta rilasciati so o riapparsi sulla prima linea del fronte del jihad, chi con al Qaeda e gruppi collegati, un tempo, chi adesso con il Califfato.

Se è vero che il sistema di redenzione e riqualificazione su cui dovrebbero essere impostate le carceri non ha funzionato con loro, e dunque si pone il tema della durezza della detenzione che risulta a tutti gli effetti inutile in molti casi, dall’altra parte il problema è che quei detenuti sono a tutti gli effetti delle minacce di primo livello per la sicurezza globale e in qualche modo vanno gestiti. I numeri sono chiari: oltre 100 sono tornati a imbracciare il kalashnikov, per 70 di loro ci sono prove meno dirette, ma si pensa che si muovano in un’area grigia dietro ai combattenti. Pochi quelli che sono diventati maestri d’asilo.

LA STORIA DELL’UOMO DI DEMPSEY  

L’uomo su cui Dempsey due mesi fa ha espresso parere non favorevole alla scarcerazione, si chiama Shaker Aamer, è un saudita residente a Londra incarcerato nel 2001. È stato catturato in Afghanistan, dove lavorava per una charity islamica, prima portato alla base aerea di Bagram, poi a Kandahar, infine a Gitmo: secondo le accuse avrebbe fatto da facilitatore economico e reclutatore per al Qaeda nel Regno Unito, ma le informazioni su di lui erano arrivate dalle confessioni spurie del “pentito” qaedista Yasim Mohammed Basardah (le cui testimonianze sono state spesso considerate esagerate al solo fine di ottenere migliori trattamenti in cambio). Pare avesse confessato la conoscenza di Osama Bin Laden, e pare fosse un ricercato dalla Mabahith (la polizia segreta interna) saudita per i legami col terrorismo. Ma sembra anche che le confessioni siano state fuorviate dalle torture e i link terroristici non sono stati mai supportati da prove forti. Il suo caso è stato per anni al centro delle polemiche, per buona parte rappresentativo di vari aspetti controllato versi dietro alla grossa questione Guantanamo. L’incarcerazione fu definita da Amnesty International una «parodia della giustizia» indicando il suo come «un limbo crudele» a causa delle condizioni “disumane” della detenzione. Situazione del genere non sono uniche a Guantanamo e rappresentano per un presidente premio Nobel per la Pace un certo imbarazzo politico.

Non c’erano accuse formali contro Aamer, per questo doveva essere liberato: una revisione interdipartimentale ne consigliò il rilascio già nel 2009, ma invece è rimasto nel carcere cubano per altri anni. L’argomento è tuttora di dibattito politico: a inizio gennaio 2016 il leader dello Scottish National Party Alex Salmond ha chiesto che Tony Blair e Jack Straw, rispettivamente premier e ministro degli Esteri ai tempi della cattura di Aamer, pagassero il conto della giustizia per aver fatto subire ad un cittadino britannico torture nel campo di prigionia americano (nel 2013 la cantante PJ Harvey scrisse la canzone “Shaker Aamer” parlando dell’alimentazione forzata a cui fu sottoposto l’uomo durante un suo sciopero della fame). Dai racconti del detenuto, pare che alcuni funzionari dell’intelligence britannica fossero presenti durante le torture subite a Guantanamo: «Se anche solo un singolo funzionario britannico era presente alla tortura di un detenuto a Gitmo e non è intervenuto, significa che eravamo complici» ha scritto Chris Hemmings sull’Independent qualche settimana fa, a testimonianza di quanto il fatto sia ancora attuale.

Guantanamo nel corso del tempo è diventato un enorme argomento da usare, come sempre accade in questi casi, come proxy per sostenere l’agenda politica da una parte o dall’altra degli schieramenti.

Aamer è stato rilasciato definitivamente il 30 ottobre del 2015, e appena rimesso piede in Inghilterra è diventato protagonista di un’ampia esposizione mediatica: nelle sue interviste ha sempre spiegato di cercare soltanto le scuse ufficiali da parte di Washington e Londra per quello che ha subito, e ha dichiarato di non voler procedere con azioni legali. Il rilascio è stato deciso dalla speciale task force creata per gestire entrate e uscite da Gitmo, di cui fanno parte i segretari alla Difesa, di Stato e per la Homeland Security, il procuratore generale, il direttore della National Intelligence, e il capo di stato congiunto della Difesa: nel comunicato dell’Amministrazione si leggeva che la decisione era stata presa «all’unanimità», ma dalle email tra Dempsey e il Free Beacon pare che il governo americano abbia mentito, perché il generale non era d’accordo. Dempsey riteneva che Aamer potesse avere ancora ruoli nel reclutamento, soprattutto attraverso i social network. Ritorna la questione politica intorno a Gitmo: ai media non è stata diffusa la posizione del capo dello stato maggiore congiunto, la più importante figura militare degli Stati Uniti, in disaccordo con la Casa Bianca — Dempsey ha concluso il suo mandato dal settembre 2015.

L’ANNUNCIO DI OBAMA: TEMPI E MODI

Obama ha annunciato di volere chiudere Guantanamo i giorni precedenti ad un Super-Tuersday, ossia il martedì in cui si è votato (questa settimana) per le primarie per la presidenza in una decina di stati contemporaneamente, i cui risultati segnano definitivamente il passo per i futuri candidati: la tempistica indica un chiaro messaggio politico lanciato ad un Congresso guidato dall’opposizione e sul piede di guerra, di quella “war on terror” che vorrebbe mostrare i muscoli americani contro il terrorismo jihadista internazionale, e di cui Gitmo è una colonna fondale. Quattro i punti calcati alle telecamere da Obama: il carcere deve essere “terminato” perché “controproducente” (non redime, ma anzi aumenta la radicalizzazione), è “costoso” (450 milioni l’anno per il mantenimento), “è contrario ai nostri valori” (”mina l’immagine americana”, Washington non è Pyongyang e non può permettersi strutture del genere), e poi i tribunali americani sono “forti” e capaci di giudicare i prigionieri anche per reati di enorme gravità. Obama ha sottolineato che la sua volontà non è ideologica (non è da liberal, di sinistra, ossia), perché anche George W. Bush, il costruttore del carcere e il simbolo del pugno duro contro il terrorismo, aveva in programma di chiuderlo: “Non voglio lasciare questa eredità al mio successore” ha detto una decina di giorni il presidente.

Dall’altra parte il coro dei no va dal candidato repubblicano Marco Rubio, che ha usato più volte la sua opposizione alla chiusura per ragioni di sicurezza nei suoi comizi elettorali, alle associazioni nimby nate nei territori dei siti che il Pentagono considera alternativi, a una concreta proposta di legge per opporsi alla volontà del presidente, già in redazione al Congresso.

Nel piano della Casa Bianca alcuni prigionieri saranno rispediti nei paesi di origine (però molti sono yemeniti, e non potranno tornare in un paese fallito, dove il territorio è conteso tra i ribelli sciiti, al Qaeda e alcune cellule dell’Isis: è questo è uno dei vari problemi contingenti), alcuni mandati tramite accordi diretti in altri Stati, qualcuni liberato come Aamer, i restanti trasferiti in strutturi di massima sicurezza sul territorio americano. Tra queste potrebbe esserci anche Supermax, prigione immersa nel vuoto gelido delle Montagne Rocciose, soprannominata “La Tomba”, dove i detenuti vengono lasciati anche per 23 ore al giorno in isolamento (l’altra ora la passano comunque reclusi, senza “vedere l’aria”). “Un luogo forse peggiore del campo cubano” ha scritto Guido Olimpio sul Corriere della Sera, ma utile per raggiungere l’obiettivo di coerenza elettorale che Obama s’è fissato.

LA NUOVA STRATEGIA ANTI-ISIS E I BALCK SITES

Tra i tanti problemi che la chiusura di Guantanamo si porta dietro, ce n’è uno che si intreccia con la nuova strategia americana in Iraq e Siria. Molti dei detenuti sono arrivati al campo cubano dopo un periodo trascorso nei cosiddetti black sites della Cia, buchi neri, altri non-luoghi in cui le leggi venivano abbandonate per rendere gli interrogatori delle vere e proprie torture al fine di estorcere confessioni (che spesso, come si sospetta nel caso di Aamer, uscivano dalla bocca di detenuti sfiniti i quali dicevano ciò che gli agenti americani volevano sentirsi dire pur di essere mollati dagli aguzzini dell’intell Usa). Situazioni da film, come quella in cui, in “Scandal” appunto, quel capo del mondo libero fa rinchiudere la madre della sua amante Olivia con l’accusa di essere una terrorista internazionale: situazioni ovviamente molto oltre i confini del diritto che con ogni probabilità sono tutt’ora attive. Dai black sites i detenuti poi passavano da campi locali (alcuni dei nomi di questi posti sono ormai epici, Abu Ghraib, Camp Bucca, per esempio) che facevano da filtro per Gitmo: altre strutture dove le torture prendevano la scena ai diritti dei prigionieri. Ora, stando alla nuova strategia americana, che prevede l’invio già in Iraq e poi forse in Siria di ETF (expeditionary targeting force) della Delta Force, strutture del genere forse potrebbero dover essere rimesse in piedi, perché l’obiettivo dei duecento operatori Delta inviati sul suolo iracheno è proprio catturare uomini dello Stato islamico per costringerli a cantare. Il primo in assoluto di questi prigionieri è stato preso poche settimane fa, e pare sia stato trasferito momentaneamente a Erbil, nel Kurdistan iracheno, probabile luogo di un nuovo black site (o vecchio, nel senso usato già in precedenza). Per il momento un prigioniero è gestibile, ma quando inizieranno ad essere di più? Saranno lasciati tutti nelle mani degli iracheni come prevede l’idea della presidenza? Washington è anche spaventata dal fatto che un accorpamento di diversi detenuti nello stesso posto possa fornire possibilità di incontro e condivisione, come successo già negli anni passati, con le carceri che hanno fatto da bacino ideologico di alimentazione per i gruppi combattenti – sul ruolo delle carceri come luogo di indottrinamento e radicalizzazione in settimana si è espresso anche il Dis italiano, nella sua relazione annuale. Ma è evidente che servano strutture adeguate, affidabili (iracheni e curdi lo sono fino in fondo?), per interrogatori ginsti ma efficaci: gestite da chi, come e dove, è il problema successivo. Quello che è certo è che i prigionieri non saranno portati a Gitmo.

CHE COSE NE PENSANO GLI AMERICANI

È uscito il 4 marzo un sondaggio fatto dalla CNN in collaborazione con ORC International che brucia ancora in anticipo parte degli sforzi politici e culturali del presidente Obama: il 56 per cento degli intervistati sostiene che Gitmo dovrebbe continuare ad essere attivo (con tutto ciò che comporta connesso). Il valore sfiora quello delle rilevazioni del 2010 (60%), le più alte di sempre in proposito, e segue un trend costante: chi vuole la chiusura di Guantanamo è in netta minoranza tra gli americani. Se quella di Obama è un’operazione politica, allora sta andando nella direzione sbagliata perché non incontra i consensi dell’elettorato e dunque non sta facendo da traino al voto democratico del prossimo anno. Se è un messaggio culturale il segnale è ancora peggiore, perché a fronte di quei dati si evince un rafforzamento delle posizioni più rigide, che sono con ogni probabilità voti che finiranno nel calderone dei repubblicani. Se è invece un messaggio di coerenza, allora siamo in linea con la volontà di disimpegno verso gli affari mediorientali (perché non rappresentano interesse strategico per l’America) e tutto ciò che vi è collegato: linea su cui Obama ha provato a fondare l’intera amministrazione, salvo poi dover fare i conti con realtà che si chiamano Califfato e via dicendo.

 


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