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Tutte le pulsioni Nimby celate nel referendum No Triv

Nel prossimo mese di giugno i cittadini italiani saranno chiamati a votare in 1.322 Comuni italiani, tra cui molte città importanti come Roma, Milano, Torino e Napoli. E prima di allora una parte di loro avrà già votato alle primarie, la selezione dei candidati del centrosinistra che dovranno poi competere alle amministrative comunali con gli aspiranti sindaci degli altri partiti o coalizioni. Per il momento, il centrodestra non sembra volerne fare ricorso. Nel 2018, salvo sorprese, si terranno le elezioni politiche. Insomma, sembra che agli italiani non manchino le occasioni di espressione della volontà popolare.

Ma per tenerci allenati, il 17 aprile prossimo, tra poche settimane, saremo ancora una volta chiamati alle urne. Quelle di aprile saranno votazioni per un referendum abrogativo, straordinario istituto di democrazia diretta a cui siamo ricorsi quasi 70 volte dal 1974 (divorzio) al 2011 (nucleare). Anche questa volta, come nel 2011, saremo chiamati a scegliere sulla politica energetica nazionale: è in ballo, infatti, il rinnovo delle concessioni per la ricerca e lo sfruttamento di giacimenti di idrocarburi offshore (in mare). Insomma, un altro referendum figlio della sindrome Nimby: dopo i no-nuke non potevano mancare i no-triv (no alle trivelle).

Com’era prevedibile, si è giunti al referendum sulla scia di molte polemiche. Una breve cronistoria. Nel 2013 il coordinamento nazionale no-triv inizia la battaglia contro la politica energetica del governo Renzi. Nello specifico, i provvedimenti contestati sono quelli contenuti nel decreto Sblocca Italia. In una prima fase il comitato nazionale, assieme ad altre associazioni ambientaliste, ha tentato la strada parlamentare e della moral suasion sul governo. Nel 2014, però, il decreto viene convertito in legge, le contestazioni crescono e il movimento coinvolge diversi territori. Dinanzi a un governo definito incapace di ascoltare le istanze della popolazione, si sceglie dunque l’opzione referendaria. Approfittando dei malumori locali e del perenne scontro Stato-Regioni, il coordinamento ha pensato bene di evitare la raccolta firme, preferendo presentare ai singoli Consigli regionali i sei quesiti referendari.

Inizialmente erano dieci le Regioni ad aver discusso e approvato nei rispettivi Consigli la proposta di referendum depositata in Cassazione il 30 settembre 2015: Abruzzo (successivamente ha fatto un passo indietro), Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto. Parere contrario, invece, è stato espresso da Emilia Romagna e Sicilia. A metà dicembre la proposta è stata esaminata della Corte di Cassazione, la quale si è accertata della conformità alle norme di legge, per poi passare al vaglio della Corte Costituzionale che il 10 febbraio ha ammesso la richiesta. Il Consiglio dei ministri ha fissato la data del referendum al 17 aprile prossimo.

Pure la scelta della data – peraltro già ratificata dal presidente della Repubblica – ha innescato nuove polemiche: i promotori del referendum insistono affinché sia accorpato in un’unica data con le amministrative di giugno, in un cosiddetto election day, evidentemente consci del poco appeal dei quesiti, dunque timorosi che il quorum ad aprile possa non essere raggiunto. Fin qui il dibattito politico. Ma, nel merito: è lecito cercare il petrolio in mare? Al di là di una prima considerazione generale – e cioè che è bizzarro quel Paese che non solo non sfrutta, ma neppure cerca le proprie risorse minerarie – quali sono i reali rischi per l’ambiente? In fase di esplorazione, pressoché zero. Non ci sono in letteratura evidenze scientifiche di danni causati dall’utilizzo della tecnologia air gun, una sorta di ecografia ai fondali marini per individuare le cosiddette campane geologiche, e cioè quei tratti di fondale che potrebbero (al condizionale) trattenere petrolio.

La Norvegia non è certo un Paese dalla scarsa coscienza ambientale, eppure è il principale produttore europeo di petrolio e tra i maggiori esportatore al mondo. Sarà anche per questo che le associazioni ambientaliste e i promotori non battono più tanto il tasto su questo argomento – al netto di quelle suggestive manifestazioni estive sulle spiagge, tutti imbrattati di nero – quanto piuttosto su quello dell’anti-economicità. Leonardo Maugeri, tra i più autorevoli esperti al mondo di energia e petrolio, in effetti è cauto sulle risorse italiane. Maugeri però evidenzia soprattutto la necessità di selezionare con accuratezza le società che posseggono o richiedono i titoli minerari. Solo compagnie solide dal punto di vista finanziario possono garantire sicurezza nella fase E&P (exploration & production). Tra queste vi è certamente il gigante olandese Shell, che però ha deciso lo stesso, anzitempo, di rinunciare alla ricerca di petrolio nello specchio di mare fra Puglia, Basilicata e Calabria. Gli olandesi hanno probabilmente qualche problema a confrontarsi con una politica poco affidabile, prima ancora che con territori preventivamente ostili. Con il petrolio stabilmente sotto i 30 dollari al barile, che non offre oggi grandi ritorni sull’investimento, perché insistere su operazioni intricate sin dall’origine? Tra l’altro, il prezzo del barile non lo decreta di certo l’Italia, bensì il mercato, prima ancora che le prossime strategie dell’Opec.

Il tasto più battuto dagli ambientalisti, dunque, è più filosofico: la decarbonizzazione dell’economia, e cioè l’abbandono delle fonti fossili a favore delle rinnovabili. Obiettivo sul quale è difficile non essere d’accordo, ma difficilmente raggiungibile on-off, e cioè in pochi anni. La virtuosa Norvegia, per esempio, non abbandona la strada degli idrocarburi dall’oggi al domani, ma modula gradualmente gli investimenti del proprio fondo pensione nelle società attive nel settore dei combustibili fossili.

Insomma, esiste una fase chiamata di transizione, da percorrere senza fanatismi, e al netto di ogni altro fenomeno Nimby che, ricordiamolo, tocca pure le fonti rinnovabili: circa i 40% degli impianti contestati in Italia. Il no a tutto certamente non aiuta alcuna economia, pure la più sostenibile.

Articolo pubblicato sulla rivista Formiche


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