Tra moniti e minacce sembra che nelle prossime settimane la Libia avrà un nuovo governo, dopo una lunga e rallentata (anche dall’esterno) fase negoziale. Mattia Toaldo, senior analyst presso l’European Council on Foreign Relations (Ecfr) di Londra che da tempo segue la Libia, ha approfondito con Formiche.net la situazione attuale, che forse può essere uno snodo per il futuro.
TOBRUK E L’EGITTO
Il governo di Fayez Serraj non ha ricevuto segnali negativi solo da Tripoli dove andrà ad insediarsi, ma anche dall’altro pseudo esecutivo presente in Libia a Tobruk. “Non c’è stato un voto, dunque formalmente non è riconosciuto dal parlamento cirenaico e dall’uomo forte locale Khalifa Haftar, sponsorizzato dagli egiziani, che in Cirenaica hanno da sempre mire geopolitiche”, sottolinea Toaldo. Nell’intervista pubblicata ieri da Repubblica Abdel Fattah al Sisi sostanzialmente ricorre alle sue esperienze militari per spiegare i rischi di ciò che potrebbe succedere con un intervento di stabilizzazione in Libia, anche solo a sostegno/addestramento delle forze del nuovo governo Serraj, e lancia un monito all’Italia: “Rischiate un’altra Somalia”. Per il presidente/generale egiziano, che ha sottolineato l’impegno del Cairo per promuovere il governo unitario, va invece presa più in considerazione l’opzione di sostenere militarmente Tobruk: “Ci sono risultati positivi che si possono raggiungere sostenendo l’Esercito nazionale libico (l’esercito di Tobruk, ndr). E questi risultati si possono ottenere prima che noi ci assumiamo la responsabilità di un intervento”, ha detto. “È quello che l’Egitto sta facendo da due anni”, dice Toaldo a Formiche.net, “ed in questo momento Sisi prende vento anche perché il suo uomo in Libia (Haftar, ndr) ha praticamente ripreso il controllo di Bengasi e dunque di larga parte della Cirenaica. Il fatto, però, è che Egitto e Tobruk non rappresentano tutto l’Est libico, non più: il futuro ministro della Difesa non è Haftar, ma un uomo di Bengasi (Mahdi al Barghati, comandante della potente Brigata 204, ndr) che ha combattuto l’IS in Libia, ma ha preso le distanze da Haftar”. “Tuttavia, quello che il presidente egiziano dice a Repubblica è molto rappresentativo del pensiero del Cairo: direi che a questo punto se fai un governo in Libia, lo fai o contro o nonostante l’Egitto”, aggiunge Toaldo.
LE TAPPE DI SERRAJ
Giovedì 10 marzo l’inviato delle Nazioni Unite per gestire la crisi libica Martin Kobler, a cui è stato rinnovato il mandato due giorni fa, ha provato a forzare la mano sul processo di formazione e insediamento del nuovo governo di concordia che dovrebbe guidare la Libia sotto egida Onu. In un incontro del Dialogo politico intra-libico, l’organismo che sta cercando da tempo una soluzione negoziata alla crisi, Kobler ha proposto di considerare la dichiarazione di appoggio al nuovo esecutivo presentato dal premier designato Serraj tre settimane fa, come legittimo sostegno politico al governo di concordia. “Il Dialogo ha chiesto però che si rispettasse l’accordo di Skhirat”, ricorda l’analista italiano. L’accordo di Skhirat, città marocchina sulla costa atlantica che ha ospitato il vertice internazionale (sotto ombrello Onu) con cui si è dato inizio all’attuale processo negoziale, prevede che per la formazione di un gabinetto unitario si debba raggiungere il voto favorevole del parlamento di Tobruk, che gode (o forse godeva) della legittimazione internazionale, e che spesso ha fatto saltare le sedute di voto, anche spinto da pressioni esterne come i giochi di interesse egiziani.
L’AVALLO OCCIDENTALE
“Nei giorni successivi però c’è stato un vertice a Parigi in cui i ministri degli Esteri di Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e l’Alto rappresentante dell’Unione europea, hanno deciso di esprimere pieno sostegno al governo libico di unità nazionale proprio riconoscendo la dichiarazione del 23 febbraio firmata dalla maggioranza dei membri della Camera dei rappresentanti (HoR, il parlamento di Tobruk, ndr) come sufficiente strumento per dare sostegno politico al governo Serraj, il quale nella stessa nottata ha diffuso una dichiarazione dicendo che in pratica era già in carica”, spiega Toaldo. A stretto giro anche il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha fatto lo stesso, spingendo il nuovo governo ad insediarsi al più presto a Tripoli. Ossia, il Dialogo è stato bypassato con una forzatura diplomatica: una sottolineatura di come Tobruk e Tripoli abbiano perso parte del proprio ruolo.
LE REAZIONI DI TRIPOLI
Mercoledì è uscita una dichiarazione dello pseudo esecutivo tripolitano in cui si leggeva che “il governo di salvezza” (così si definiscono) “non cederà i propri poteri” all’esecutivo di unità nazionale del premier Serraj perché “è imposto dall’esterno e i libici non lo accetteranno mai”: “Non contrattiamo con il sangue dei nostri martiri e non svenderemo la libertà che abbiamo ottenuto”. Uno scenario complesso se si pensa che tra pochi giorni l’esecutivo promosso da Onu, Usa e UE, dovrebbe insediarsi proprio a Tripoli. “Nemmeno quello che dicono dal governo tripolitano, non è più così rappresentativo”, spiega Toaldo: “In realtà diverse milizie e controparti politiche sono uscite dall’orbita di Tripoli e sembrano d’accordo sul nuovo governo, un esempio su tutti la potente città/stato di Misurata, dunque queste dichiarazioni sono proclami forti, ma non rappresentano l’umore dell’intero Ovest libico”.
TOBRUK IGNORA IL PROCESSO
Le invettive di Tripoli si abbinano al silenzio tattico di Tobruk, da dove solo Sisi parla. Per l’analista dell’Ecfr è probabile che i cirenaici continueranno a muoversi come se nulla stesse succedendo (e infatti Sisi non ne fa menzione su Repubblica), forti delle conquiste ottenute a Bengasi (si dice anche grazie all’aiuto francese), “ma il problema per quelli di Tobruk è che senza quella legittimazione internazionale non potranno di certo vendere petrolio e tessere interessi come hanno fatto finora, perché tutto il mondo riconoscerà soltanto Serraj”. Sarà un processo lungo da assimilare, ma il futuro pare sia questo. “Sisi da Repubblica invita a valutare un aiuto ad Haftar e ai cirenaici, ma si sa che il generale è inviso in tutte le capitali occidentali e in questo momento ha ancora meno credito”, spiega Toaldo.
LA DELIGITTIMAZIONE DI TRIPOLI E TOBRUK
“Bisogna tenere a mente che i passaggi di quest’ultima settimana hanno tolto gran parte della legittimità e del potere a Tobruk e Tripoli: internazionalmente è Serraj ad essere rappresentativo, e ci sono attori interni ed esterni che si impegneranno affinché questo avvenga anche in Libia”, dice Toaldo. La Libia è un paese che ha anche grosse difficoltà economiche, e dunque avere controparti e partner internazionali è fondamentale.
L’AIUTO INTERNAZIONALE
“Il punto vero, adesso – aggiunge l’analista dell’Ecfr – è capire se quelle stesse milizie che si dichiarano favorevoli a sostenere Serraj poi si impegneranno per difenderlo con i fucili nel momento in cui dovesse finire sotto attacco dei componenti della linea dura”. Adesso i membri dell’esecutivo sono fuori dal paese, al sicuro, visto che sia Serraj che alcuni futuri ministri hanno avuto pessime esperienze nei loro primi tentativi di ingresso in Libia: il premier ha rischiato la vita diverse volte nel giro di poche ore quando era andato ad onorare i caduti dell’attentato fatto dalla Stato islamico a Zliten, tre membri del futuro governo sono stati arrestati appena atterrati all’aeroporto Mitiga di Tripoli, anche se alcuni altri, tra cui Ahmed Maitig, vice di Serraj, vanno e vengono continuamente dalla capitale libica e hanno ottimi feedback.
Per questo il nuovo governo richiederà subito l’aiuto militare internazionale di cui tanto si parla? “Non è detto – risponde Toaldo – Dipende da quello che succederà realmente sul campo la prossima settimana. È molto possibile però che Serraj chieda agli stati occidentali che lo hanno sostenuto politicamente, lo sblocco dell’embargo sulle armi, per ricevere rifornimenti militari da utilizzare per garantirsi sicurezza, e magari anche finanziamenti economici”. Ma si parla molto di un contingente di 5/6 mila uomini già in preparazione per ottemperare alle richieste del nuovo governo: “Partiamo col dire che quel numero è legato ad una dichiarazione italiana risalente al febbraio 2015, in cui il ministro della Difesa Roberta Pinotti disse che Roma avrebbe potuto mettere a disposizione cinquemila militari: uscita poi smentita e rettificata, sebbene sia ancora ripresa dopo mesi, anche perché in molti stanno calcando sulla disponibilità dell’Italia. Ma è comunque ovvio che alcuni stati europei e l’America si stiano preparando per avere una risposta immediata nel caso Serraj chieda aiuto subito”.