Quando ci sono posti di lavoro da difendere, un sindacalista dovrebbe sapere da che parte schierarsi. Eppure non succede sempre così. Il referendum sulla proroga fino a esaurimento dei giacimenti delle concessioni estrattive di petrolio e gas entro le 12 miglia dalla costa (così come previsto da una norma della Legge di Stabilità 2016 che i promotori intendono abolire) è un caso emblematico. Il sindacato è spaccato in due. In particolare la Cgil. Da una parte ci sono la Fiom di Maurizio Landini che fa parte del Comitato per il sì e l’appello di circa 400 tra dirigenti e quadri cigiellini; dall’altra c’è chi come Emilio Miceli, segretario nazionale della Filctem-Cgil, ritiene che questa consultazione sia sbagliata e possa avere gravi ripercussioni su migliaia di posti di lavoro. Una posizione condivisa con i vertici della sua categoria di chimici, tessili, energia e manifatture e con altre sigle (Femca-Cisl, Flaei-Cisl e Uiltec-Uil).
Miceli, cosa farà lei domenica 17 aprile, data del referendum?
Per il momento partecipo al dibattito cercando di riportarlo su termini reali. Quella mattina mi alzerò e secondo me alla fine deciderò di non andare a votare. Lo debbo a quei lavoratori che rischiano il posto. In ogni caso, non voterò mai sì all’abolizione della proroga concessoria.
Perché?
Sono contrario a questo referendum che non coglie la complessità della questione. Stiamo parlando di un settore molto importante come quello energetico, di un distretto tecnologico all’avanguardia presente soprattutto a Ravenna e del giacimento di riserva energetica del Paese. Non possiamo pensare che un tema del genere possa essere affrontato senza tenere conto della situazione dell’intero pianeta e chiudendoci nel nostro guscio. Se poi dovessi fare l’elenco delle iniziative industriali che hanno un impatto sull’ambiente, francamente mi sentirei di dire che il problema delle estrazioni di gas e petrolio in mare da questo punto di vista quasi non esiste.
Eppure il messaggio dello stop alle trivelle ha creato una certa mobilitazione…
Siamo nella società a 140 caratteri, vince chi riesce a sintetizzare al massimo e non chi ha ragione. Questo referendum non riguarda le trivelle, è ora di dirlo chiaramente; parliamo di una proroga fino all’esaurimento dei giacimenti per attività estrattive già in essere, piattaforme marittime entro le 12 miglia dalla costa tuttora funzionanti e che non devono essere perforate. Non c’è nessuna trivella che sarà attivata, quindi la battaglia su un presunto no-Triv può appassionare i social-network ma non ha alcuna attinenza con la realtà.
Nel suo sindacato, la Cgil, non tutti la pensano come lei. Come la mettiamo?
In questo referendum ci sono i residui di una linea che vuole vietare al Paese di produrre, quindi di estrarre idrocarburi. E’ un referendum di risulta, ma che può fare molti danni, sia all’occupazione che alla capacità di attrazione degli investimenti esteri. La Cgil ha deciso di non prendere posizioni ufficiali sui quesiti referendari non promossi da lei; è una regola interna al sindacato che qualcuno osserva e qualcun altro no. Io parlo a titolo personale, ma posso dirle che nel direttivo della categoria la mia posizione è largamente condivisa.
Quali conseguenze teme in caso di vittoria del sì?
Attorno al funzionamento, alla manutenzione e alla costruzione di piattaforme in mare ruota un settore che conta circa 10mila addetti in Italia. Poi c’è un indotto ben più grande e difficile da quantificare. In caso di vittoria dei sì, come primo effetto immediato immagino che le imprese dell’offshore revochino i loro piani di investimento, sapendo di poter condurre l’estrazione nei giacimenti marini solamente fino alla scadenza della concessione. Inoltre, continueremo a dare l’impressione di essere un Paese che ogni tre mesi cambia le normative, e anche chi si sentiva tranquillo inizierà a pensare che forse non è il caso di continuare a investire in Italia. Va poi ricordato che il 70% delle piattaforme ravennati sarebbero direttamente coinvolte, dato che quelle concessioni scadono nel 2019. E’ presumibile prevedere che chi sa di dover alzare le tende fra tre anni, inizi a farlo prima, allentando gli investimenti anche sul piano della sicurezza, sia interna per i lavoratori che per l’ambiente. Le conseguenze del sì al referendum saranno quindi di tipo sociale e occupazionale, sull’affidabilità del Paese nell’attrarre investimenti e anche sull’impoverimento della cultura dell’esplorazione e dell’estrazione che rappresenta un’eccellenza italiana.
Come si dovrebbe comportare un sindacalista quando ci sono posti di lavoro a rischio, come in questo caso?
Il tema dell’occupazione fa sempre la differenza per un sindacalista, che attraverso i suoi atti è chiamato a difenderla. Ci sono soprattutto motivazioni etiche che mi impediscono di dire sì a questo referendum: sono un dirigente sindacale, devo proteggere i lavoratori, garantire occupazione, questa è la mia missione. Trovo quindi quanto meno volgare questa sorta di eccitazione che c’è in una parte del sindacato e dentro la Cgil stessa, questa euforia sul presunto stop alle trivelle. Davvero è una posizione fuori luogo rispetto alla compostezza che dovrebbe mantenere un dirigente sindacale di fronte a problemi che lacerano il tessuto produttivo. Qui invece si incita alla guerra del tutti contro tutti, senza voler capire e dire in maniera approfondita cosa veramente succede.
Chi promuove il referendum chiede che si abbandoni una politica energetica fondata sugli idrocarburi per puntare sulle fonti rinnovabili e alternative.
E’ arrivato il momento di parlare con chiarezza, i dati al riguardo non fanno sconti: il 75% del fabbisogno energetico del pianeta è coperto da idrocarburi e materiali fossili. Carbone, gas e petrolio, questo è il mix. Noi in Italia abbiamo il mix migliore, composto da gas e rinnovabili, ma ai soloni di turno mi permetto di chiedere: davvero pensate sia giusto che a produrre questa energia da idrocarburi che siamo costretti a consumare sia qualcuno in Mozambico, Nigeria, Libia o Kazakistan e non anche noi in Italia? Da uomo di sinistra, mi fa impressione l’idea secondo la quale siccome noi siamo la parte ricca del pianeta, il lavoro sporco lo lasciamo fare alle zone più povere. Qui nessuno presuppone che calino i consumi energetici di idrocarburi, ma che a produrli perforando terre e mari siano Paesi lontano da noi, così da non sporcarci le mani e toglierci il problema. E’ una cosa inaccettabile, soprattutto per chi ha un’idea progressista della società e combatte le disuguaglianze.
Ritiene sia un problema dell’ambientalismo italiano?
Certamente la qualità del nostro ambientalismo lascia molto a desiderare; in Italia la cultura ambientalista non si arricchisce di una visione di società, è ruvida e secca. Quando si parla di energia, non si parla solo dell’orto di casa propria ma di come si muove l’intero pianeta. La realtà è molto più complessa delle semplificazioni da slogan di certi ambientalisti, servirebbe una lettura più attenta e qualche valore in più.