Skip to main content

Come prosegue la contesa tra Fbi e Apple

tim cook, apple, iphone

La polizia federale americana è riuscita a sbloccare l’iPhone di Syed Rizwan Farook, uno dei due attentatori che lo scorso dicembre aprirono il fuoco a San Bernardino, in California, uccidendo 14 persone e ferendone circa venti. L’intromissione all’interno del dispositivo sarebbe avvenuta grazie all’aiuto di un “soggetto terzo”, l’azienda israeliana Cellebrite. Si chiude così il caso legale contro Apple, il gruppo produttore dello smartphone, che si era rifiutato di abbassare le difese del dispositivo per permettere all’Fbi di accedere ai dati venendo meno all’ordine di un giudice. La speranza della polizia federale adesso è quella di trovare informazioni utili che spieghino potenziali legami di Farook con gruppi terroristi. Per Apple diventa invece prioritario scoprire come siano riusciti ad aggirare il sistema di protezione, ma non è affatto scontato che Washington voglia condividere questa informazione. La battaglia tra l’Fbi e il gruppo guidato da Tim Cook non può dirsi di certo conclusa.

IL DOCUMENTO

Aver trovato il modo di sbloccare il dispositivo, grazie all’aiuto di un “soggetto terzo”, ha reso inutile l’udienza con la controparte, fissata per il 21 marzo scorso, e posticipata proprio in seguito all’annuncio del dipartimento di Giustizia di essere ad un passo dalla soluzione. Il dipartimento di Stato aveva originariamente sostenuto che “l’assistenza cercata poteva essere fornita soltanto da Apple”.

“Il governo ha con successo avuto accesso ai dati conservati nell’iPhone di Farook e di conseguenza non richiede più l’assistenza di Apple”, si legge in un documento depositato ieri dal dipartimento di Giustizia e citato da Askanews. Le autorità competenti “hanno con successo recuperato i dati” e ora l’Fbi li sta analizzando “in linea con le procedure standard di indagine”.

TOP SECRET

Scoprire quale metodo è stato usato per sbloccare l’iPhone è adesso l’obiettivo dei legali del gruppo guidato da Tim Cook. Ma non è detto che il metodo venga svelato da Washington e se quella tecnica potrà essere usata con altri dispositivi in possesso delle forze dell’ordine. Le uniche informazioni al momento note sono che “questo strumento funziona sull’iPhone 5c che è stato trovato nel caso di San Bernardino, che era dotato di una versione [del sistema operativo] iOS 9”, come ha spiegato un funzionario Usa ieri durante una conference call con la stampa aggiungendo: “Al momento non possiamo commentare sulla possibilità che in futuro” quel metodo sia svelato. Secondo Askanews, “se il metodo diventasse top secret, si solleverebbero dubbi sulla sicurezza dei prodotti Apple. Il timore è che i suoi utenti potrebbero essere esposti a parti terze che potrebbero usare la vulnerabilità dei suoi dispositivi per accedervi a fini illeciti”.

IL BRACCIO DI FERRO

Washington è intenzionata a proseguire nella stessa direzione: “Garantire alle forze dell’ordine la possibilità di ottenere informazioni digitali cruciali per proteggere la sicurezza nazionale e del pubblico resta una priorità del governo”, sia che essa sia raggiunta “con la cooperazione di parti rilevanti o attraverso il sistema giudiziario quando la cooperazione fallisce”, ha dichiarato Melanie Newman, portavoce del dipartimento di Giustizia. Per di più ora che la sua attività non può considerarsi illegittima, “perché già validata in precedenza da un soggetto terzo, cioè un giudice federale che aveva ritenuto corrette le richieste del Dipartimento della Giustizia a fronte di un’indagine così delicata che attiene alla sicurezza nazionale del Paese”, ha detto a Cyber Affairs Maurizio Mensi, avvocato e professore ordinario di Diritto dell’economia alla Sna, la Scuola Nazionale dell’Amministrazione.

E lo stesso vale per Apple, che “avrebbe dichiarato l’intenzione di proseguire la battaglia giudiziaria, con la possibilità di rivolgersi anche alla Corte Suprema” per appellarsi al diritto alla privacy, ha commentato Mensi, spiegando che Apple ha tenuto il punto sino alla fine per “questioni di immagine e marketing” anche per scongiurare “un effetto domino su richieste provenienti da Paesi illiberali o dotati di un sistema giuridico meno garantista”. Per Mensi il caso “può forse considerarsi chiuso”, ma il problema non è risolto e potrebbe riemergere: “In gioco c’è la definizione di un equilibrio globale tra sicurezza e privacy, l’autonomia di giganti come Apple e anche il braccio di ferro ancora in corso su negoziati e accordi internazionali come lo EU-US Privacy Shield”.​​​

IL RUOLO DELLA SOCIETÀ ISRAELIANA

Per Stefano Mele, avvocato specializzato in Diritto delle Tecnologie, Privacy, Sicurezza delle Informazioni e Intelligence, il caso Apple-Fbi, “è sembrato una perfetta strategia mediatica win-win, ovvero dove tutti e due gli attori protagonisti alla fine vincono”, ha detto in un’intervista con Cyber Affairs.

Ma in questa vicenda un ruolo non indifferente è stato giocato da un terzo soggetto, seppure ci siano ancora pochissimi dettagli sul come effettivamente sia stata violata la sicurezza di quel cellulare. La società israeliana Cellebrite, ben nota nell’ambiente degli esperti di mobile forensics “ha tutto l’interesse economico e mediatico ad essere la prima ad aver violato la sicurezza dell’iPhone di Syed Rizwan Farook​”​, ha commentato Mele.


×

Iscriviti alla newsletter