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Guidi, Roma, Trivelle. Tutte le salvinate del centrodestra spappolato

GIORGIA MELONI, MATTEO SALVINI

Il centrodestra, o quel che ne rimane, come tocca precisare quando bisogna occuparsene, non si è lasciata scappare neppure l’occasione della vicenda che è costata il posto di governo all’ex ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi per annaspare nella confusione.

È vero che alla fine Paolo Romani, il capogruppo di Forza Italia al Senato, ha annunciato una mozione di sfiducia al governo presumibilmente comune con la Lega e i Fratelli d’Italia. Ma solo dopo che il segretario leghista Matteo Salvini, tentato già a Pasqua via twitter di lanciarsi nel vuoto col parapendio, si era offerto ai grillini per una iniziativa comune contro Matteo Renzi. E si era guadagnata la sarcastica disponibilità del pentastellato Roberto Fico a posare insieme solo per un selfie, cioè per uno scatto fotografico col primo telefonino, o simile, a portata di mano.

 

Con un precedente del genere, era forse inopportuno cercare di raccordarsi col partito di Salvini da parte di Forza Italia, pur nella comprensione realistica delle tante e importanti realtà locali in cui forzisti e leghisti ancora collaborano: dalla Lombardia al Veneto, e alla Liguria. Una regione, quest’ultima, il cui presidente forzista Giovanni Toti, non so se ancora “consigliere politico” di Silvio Berlusconi, partecipa alla campagna referendaria contro le trivelle marine. Una campagna che dovrebbe stare ad un centrodestra serio, e di governo, come il diavolo all’acqua santa. Il diavolo di una vecchia sinistra abituata a strumentalizzare l’ambientalismo e quant’altro per preferire il declino presuntuosamente felice allo sviluppo.

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Poteva e doveva bastare l’opzione lepenista, a livello europeo, della Lega guidata da Salvini per indurre Berlusconi a cambiare registro e a risparmiarsi, per esempio, quel palco di Bologna, dove decise di salire nella illusione di conservare furbescamente una leadership che il successore di Umberto Bossi e la sorella dei Fratelli d’Italia, non a caso uniti oggi nelle elezioni capitoline di giugno contro il candidato forzista Guido Bertolaso a sindaco, considerano un cimelio, non più una realtà, e tanto meno una prospettiva.

Se sul piano europeo è diventato il lepenismo il riferimento della Lega salviniana, sul piano interno sta diventando purtroppo il grillismo, in funzione di un ossessivo antirenzismo. Lo ha confermato il braccio appena teso dal Matteo padano ai grillini, e rifiutato, per una sfiducia comune in Parlamento al governo delle trivelle. Ma lo aveva già annunciato clamorosamente Giorgia Meloni dichiarando la sua preferenza per la candidata di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio al Campidoglio, Virginia Raggi, in caso di ballottaggio con il pur amico ma renziano Roberto Giachetti. Che pure ha alle spalle una militanza radicale, di cui è ancora orgoglioso, alla quale il centrodestra improvvisato da Berlusconi nel 1994 con Gianfranco Fini e Umberto Bossi era, a dir poco, sensibile.

 

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Poi non debbono sorprendersi sia Berlusconi sia la sorella dei Fratelli d’Italia, e persino Salvini, se gli elettori del vecchio centrodestra o se ne rimangono a casa, storditi e interdetti, o si lasciano sedurre da Renzi, perdonandogli forzature e contraddizioni che certamente non gli mancano. E che sono emerse anche dalla gestione della vicenda dell’ex ministra Guidi lamentata dal direttore di Formiche.net Michele Arnese: “Un episodio microscopico”, ha scritto anche l’insospettabile Eugenio Scalfari, nel contesto del “fenomeno diffuso nel mondo” dei rapporti tra “corruzione e potere” . O, direbbe Arnese, fra lobbismo e potere.

In caso di antirenzismo acuto e irriducibile, molti elettori stanchi di aspettare un nuovo e credibile centrodestra potrebbero infine votare direttamente per i grillini, senza neppure aspettare il ballottaggio ipotizzato dalla Meloni.

Si fa presto a passare a destra, più o meno inconsapevolmente, dalla vocazione maggioritaria alla vocazione suicida. Come d’altronde è accaduto anche alla sinistra dei vari Occhetto, D’Alema, Fassino, Veltroni, Franceschini, Epifani e Bersani prima dell’arrivo del rottamatore Renzi. Di cui molti, da quelle parti, contestano la collocazione a sinistra, senza rendersi conto che egli è stato in fondo il prodotto reattivo dei loro errori, come sarcasticamente Staino ha appena ricordato ai compagni in una vignetta delle sue, sapida e fulminante.

 

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La pur “microscopica” vicenda dell’ex ministra Federica Guidi, che ha tuttavia funzionato come un “fiammifero” caduto acceso in un pagliaio, è riuscita a distrarre Scalfari sulla sua Repubblica dall’abituale contemplazione di Papa Francesco e a cercare il vero genitore o progenitore politico di Renzi. Lo ha trovato non in Silvio Berlusconi, non in Bettino Craxi, entrambi notoriamente sgraditi a Scalfari, ma in Antonio Giolitti. E non per rammaricarsene, visto ciò che di Giolitti scrisse Gaetano Salvemini associandone i metodi di governo alla “malavita”, ma per compiacersene, perché Giolitti fu obbiettivamente uno statista, in qualche modo anticipatore del progetto del partito della Nazione attribuito al presidente del Consiglio e segretario del Pd in carica. Di cui Scalfari, mandando forse di traverso la sua omelia a molti lettori fedeli, ha condiviso l’auspicio che il referendum contro le trivelle affoghi in un “astensionismo di massa”. Ben detto, Barpapà.


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