Dopo il calo dei prezzi del petrolio di fine 2014, molti osservatori si sono meravigliati che OPEC e altri grandi produttori come la Russia non avessero contrastato il crollo con restrizioni dei volumi di produzione. La sensazione che l’arma del coordinamento dell’offerta, da alcuni considerato un punto fermo fosse divenuto obsoleto in uno scenario di crescita incontrollata della produzione, ha lasciato quasi una sensazione di panico, soprattutto nei produttori maggiormente vulnerabili.
“Finalmente” nel febbraio 2016 Russia, Arabia Saudita, Venezuela, Qatar si sono incontrati per trovare la possibile soluzione: congelare la produzione ai livelli di gennaio. La scorsa domenica, 17 aprile, in un meeting allargato tenutosi a Doha, i membri dell’OPEC ad esclusione dell’Iran più Russia e Messico però non hanno trovato un accordo. L’Arabia Saudita all’ultimo momento ha fatto saltare il tavolo pretendendo la partecipazione anche dell’Iran, invece fermo nel voler riportare nel breve termine la propria capacità produttiva ai livelli pre-embargo di 4,2 milioni di barili giornalieri.
La reazione del mercato è stata inaspettata. Molti attendevano un crollo, ma dopo un calo iniziale i prezzi sono rimbalzati riportandosi intorno a 42$, non lontano dal livello dei giorni precedenti al meeting, raggiunto dopo la risalita da 29$/bbl incominciata ad inizio 2016. Alcuni hanno attribuito questo rimbalzo immediato dei prezzi allo sciopero dei lavoratori nelle attività petrolifere in Kuwait di inizio settimana che ha ridotto in larga misura l’offerta del paese (almeno 1,5 mln/barili giorno). L’interruzione, benché rilevante, sembra tuttavia transitoria e potrebbe risolversi facilmente nel breve termine. Più verosimile la possibilità che i mercati attribuissero poca rilevanza all’esito della riunione di questo “nuovo OPEC allargato”. Un accordo avrebbe influenzato poco i fondamentali.
LE CONDIZIONI DEL MERCATO
Un accordo avrebbe avuto dunque un valore solo simbolico, nel segnalare una discontinuità importante nell’approccio dei principali produttori, in particolare l’Arabia Saudita, più incline a cercare soluzioni di coordinamento dell’offerta per contenere il calo dei prezzi. Il suo mancato raggiungimento dimostra che i tempi per una simile inversione nella politica petrolifera potrebbero non essere ancora maturi.
Resta in ogni caso importante interpretare la risalita dei prezzi della prima parte dell’anno e chiedersi se essa abbia carattere permanente o transitorio e se sia destinata a rafforzarsi nei prossimi mesi. La risposta è nello stato dei fondamentali del mercato, non facili da decifrare. Oggi si fronteggiano due “visioni” alternative dominanti. Leonardo Maugeri ritiene il surplus di offerta ancora ampio e strutturale, la produzione molto resistente ai prezzi bassi e il ribilanciamento non troppo vicino e scontato per il 2016. Ad essa si contrappone la visione dell’IEA secondo la quale invece un ribilanciamento del mercato è già saldamente in corso e in via di finalizzazione entro la seconda metà del 2016, grazie a fattori ormai consolidati come la riduzione della produzione al di fuori dell’OPEC e un tasso di crescita della domanda in aumento.
Coerentemente con la prospettiva di Maugeri, il fattore che spiegherebbe la risalita dei prezzi della prima parte del 2016 sarebbero le rilevanti interruzioni di produzione (in larga misura in Iraq-Kurdistan, Venezuela, Libia e Nigeria) verificatesi a partire dai primi mesi del 2016 e ancora in piedi, ma che presto potrebbero rientrare. Se ciò dovesse avvenire i prezzi potrebbero verosimilmente ritornare al di sotto dei 40 dollari nel corso del 2016. Secondo la visione dell’IEA la risalita dei prezzi di inizio anno è invece l’avvio di un processo di ribilanciamento guidato da fattori strutturali che i mercati già sconterebbero con prezzi in risalita e che potrebbero attestarsi a 60 dollari già nella seconda metà dell’anno in prossimità del materializzarsi del ritorno a un equilibrio del mercato.
UNA LETTURA DEL “MERCATO”
Dallo stato dei fondamentali del mercato dipende anche la “lettura” delle mosse dei principali produttori. Qualora i sauditi sposassero la visione di Maugeri, la decisione di Doha potrebbe essere spiegata dalla convinzione di dover perseverare ancora nella politica di mantenimento dei prezzi a livelli adeguatamente bassi, almeno fino a quando l’aggiustamento dell’offerta diventi irreversibile. Dietro il comportamento di Riad potrebbe nascondersi la preoccupazione che la recente risalita dei prezzi sia stata troppo veloce, e dunque in grado compromettere il processo di assorbimento dell’offerta in eccesso in corso, ma che è solo all’inizio e ancora troppo precario.
Del resto l’industria petrolifera sta dando prova di grande flessibilità e adattamento con riorganizzazioni e riduzioni di costo importanti (soprattutto i costi di approvvigionamento di beni e servizi per l’estrazione). Il tight oil americano ha realizzato economie di apprendimento e di acquisto, processi di consolidamento e capacità di selezione dei pozzi più efficienti che hanno ridotto sensibilmente il suo break even, con una contrazione della produzione “solo” nell’ordine del 15% contro aspettative iniziali di portata molto più ampia. Per la peculiarità del ciclo di investimento, inoltre la sua produzione può ripartire più facilmente e velocemente rispetto all’industria convenzionale. Processi di incremento dell’efficienza sono stati avviati anche nelle produzioni convenzionali che una volta realizzato l’investimento, continuano a produrre fino a che i prezzi riescono a coprire i cash cost unitari operativi.
Alcuni analisti hanno identificato un intervallo di produzione “marginale” di oltre 3 milioni di barili/giorno (ampiamente sufficiente a riassorbire l’attuale surplus di offerta) con cash cost non inferiori a 40 dollari al barile. Essa proviene in larga misura dai produttori emergenti al di fuori dell’OPEC ed è legata a progetti recenti soprattutto di natura convenzionale, meno efficienti in termini di costo di estrazione. Solo prezzi ampiamente al di sotto di questa soglia (intorno a 30 dollari/barile) e soprattutto stabilmente a questi livelli per un periodo abbastanza lungo potrebbero rendere irreversibili le decisioni di riduzione dei volumi produttivi in questi progetti e rappresentare la condizione perché il processo di ribilanciamento del mercato possa compiersi pienamente.
UNA LETTURA GEOPOLITICA?
Molti osservatori hanno interpretato la decisione saudita di far saltare l’accordo come l’avvio di una guerra petrolifera nei confronti dell’Iran guidata da motivazioni geopolitiche e in reazione all’ulteriore innalzamento della tensione nelle aree più instabili del Medio Oriente, in primo luogo la Siria, dove sembra prevalere il consolidamento della presa di Assad grazie al supporto di Russia e Iran. L’indizio sarebbe il fatto che la linea del Ministro del Petrolio Naimi più propensa ad un accordo sia stata sconfessata all’ultimo momento direttamente dal Principe Mohammed Bin Salman che ha imposto come condizione per un accordo il congelamento anche della produzione iraniana con gli esiti descritti in precedenza.
L’aver partecipato al meeting, probabilmente recitando un gioco delle parti al loro interno, è stato comunque vantaggioso per i sauditi al fine di mostrare agli altri produttori in maggiore difficoltà una certa disponibilità ad ascoltare le loro istanze di favorire in modo più convinto una risalita dei prezzi nel breve, salvo poi attribuire all’Iran la responsabilità del mancato accordo, e per spingere o persiani verso un loro “isolamento”. Questa sembra però più una guerra di propaganda, importante per i sauditi, ma svincolata e parallela rispetto ai veri obiettivi della loro politica petrolifera.
A nostro avviso quest’ultima ha come bersaglio principale la produzione “marginale” al di fuori dell’OPEC più che quella dell’Iran. Solo se avverrà una contrazione di ampia portata dei volumi di produzione della prima potrà avvenire il ribilanciamento strutturale fondamentale per i sauditi ma anche per tutti gli altri produttori dell’OPEC, incluso l’Iran. In questo senso gli interessi dei due paesi sembrano allineati più che contrastanti.
Gli interessi in gioco sono troppo rilevanti e investono la sopravvivenza stessa nel lungo termine dell’attuale assetto di potere del Regno Saudita, più di quanto incide la pur importante rivalità geopolitica in corso con i persiani. Al di là della propaganda e delle messe in scena, si fa fatica a pensare che i sauditi possano realmente pensare di poter impedire un ritorno in grande stile sulla scena petrolifera dell’Iran con guerre di prezzo (che sembrano avere altri bersagli), soprattutto alla luce del processo irreversibile della fine dell’embargo. Se finanziariamente l’Arabia Saudita ha le spalle più larghe per affrontare gli effetti dei bassi prezzi, non di meno il sistema iraniano ha una solidità interna e una capacità diplomatica e operativa che ha superato crisi ben più gravi come la guerra con l’Iraq e l’isolamento politico ed economico verso l’Occidente. Di questo almeno l’Arabia Saudita dovrebbe aver fatto preziosa esperienza.