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Vi racconto chi è Michael Ledeen

La campagna un po’ ossessiva del Fatto Quotidiano contro il tentativo di Matteo Renzi di nominare l’amico fiorentino Marco Carrai consulente, o qualcosa di simile, del dipartimento d’informazioni per la sicurezza, sembra avere trovato l’argomento o l’uomo chiave per chiudersi con successo. Cioè con la rinuncia del presidente del Consiglio alla nomina o, come ogni tanto il giornale di Marco Travaglio auspica, con un veto del Quirinale.

L’uomo chiave, nel senso che può chiudere a doppia mandata l’ufficio destinato a Carrai, è un americano settantenne di nome Michael Ledeen, già consigliere di diversi presidenti degli Stati Uniti d’America, buon conoscitore dell’Italia, amico, anzi amicissimo dello stesso Carrai, tanto da essersi precipitato alle sue nozze in Toscana, forse anche socio d’affari suo o di amici, e molto di casa a Gerusalemme. Tanto di casa da esserne diventato una spia in America, secondo le ricostruzioni del Fatto. Una spia tanto sprovveduta, o sfacciata, come preferite, da farsi cogliere in fallo, da inguaiare con la giustizia un bel po’ di diplomatici americani che lo frequentavano e da essere infine allontanato da Washington.

Può Renzi – si è praticamente chiesto Il Fatto – insistere a portare nei servizi segreti italiani un amico a sua volta amico di un uomo del genere? E per fortuna la domanda si ferma qui. E non investe quella definizione di “uomo del Mossad”, cioè del potente servizio segreto israeliano, data di Renzi da Massimo D’Alema in una cena con amici e rivelata dalla notista politica del Corriere della Sera Maria Teresa Meli, fra le inutili richieste di una smentita o precisazione avanzate da Formiche.net.

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Non vi sembrerà vero, ma è praticamente da una vita che Michael Ledeen mi capita fra i piedi della memoria, se la memoria avesse le gambe.

Conobbi Ledeen una quarantina d’anni fa nella redazione romana del Giornale di Indro Montanelli, presentatomi dal mio predecessore alla guida dell’ufficio, Renzo Trionfera. Che, considerandomi un esperto di quel complesso partito che era la Democrazia Cristiana, mi pregò di spiegarne al suo amico dell’ambasciata americana i giochi interni. In particolare, quelli di Aldo Moro. Che, reduce da quella che purtroppo si sarebbe rivelata la sua ultima esperienza a Palazzo Chigi, aveva tessuto come presidente del partito un laborioso accordo col Pci diretto da Enrico Berlinguer all’indomani di un turno di elezioni anticipate, quelle del 1976, da cui erano usciti, come lo stesso Moro soleva dire, due vincitori paralizzati dalla loro stessa vittoria.

La Dc e il Pci avevano fatto entrambi il pieno dei voti, a scapito dei loro vecchi o potenziali alleati di governo, proponendosi agli elettori come alternativi. Pertanto, visto che nessuno aveva ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, non potevano improvvisarsi partecipi di uno stesso governo. E, non avendo nessuno dei due partiti degli alleati disposti a governare con uno senza l’appoggio o la collaborazione anche dell’altro, bisognava o tornare immediatamente alle urne o inventarsi qualcosa, diciamo così, di strano, di eccezionale.

Nacque così dalle fantasie di Moro e di Berlinguer la cosiddetta maggioranza di solidarietà nazionale. Che era una variante riduttiva del più impegnativo o organico “compromesso storico” teorizzato da Berlinguer come alleanza vera e propria di governo fra i due partiti maggiori. Una variante riduttiva perché tradotta in un governo interamente democristiano, presieduto da Giulio Andreotti e sostenuto all’esterno dai comunisti con l’astensione, o la “non sfiducia”.

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Ledeen era convinto che si stesse preparando in Italia un “regime” catto-comunista, che d’altronde già qualche anno prima Giovanni Spadolini, quando dirigeva il Corriere della Sera, prima di passare pure lui alla politica, aveva definito aulicamente “Repubblica conciliare”.

Tentai di dissuadere Ledeen spiegandogli, anche per la conoscenza personale che avevo di Moro, che il presidente della Dc aveva escogitato quella singolare maggioranza solo per guadagnare tempo, in una prospettiva più di logoramento che di alleanza col Pci, in attesa o nella speranza che i socialisti, peraltro appena passati dalla guida di Francesco De Martino a quella di Bettino Craxi, tornassero all’autonoma disponibilità a collaborare con la Dc prescindendo dai comunisti.

Né in quello, né in altri incontri successivi ebbi l’impressione di avere convinto Ledeen, che mi guardava come un ingenuo. E di cui immaginavo chissà quali rapporti cervellotici destinati ai suoi superiori, e al Dipartimento di Stato americano. Dove – guarda caso- alcuni amici di Moro, a cominciare dal suo principale collaboratore, Corrado Guerzoni – ebbero la convinzione che non avessero voluto fare nulla per salvarlo, quando il presidente della Dc, nel 1978, fu sequestrato e poi ucciso dalle brigate rosse.

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Mi ritrovai Ledeen fra i piedi della memoria nel 1985, quando si venne a sapere che nella famosa notte di Sigonella, quando il presidente del Consiglio Craxi impedì agli americani di catturare e portare in Usa i dirottatori palestinesi della nave italiana Achille Lauro, atterrati per forza in quella base siciliana della Nato mentre viaggiavano fra il Cairo e Tunisi, dopo avere rilasciato con un contorto negoziato in Egitto la nave italiana, dove avevano ammazzato un invalido ebreo di nazionalità statunitense. Si consumò allora al telefono fra lo stesso Craxi e il presidente americano Ronald Reagan una clamorosa rottura. Dalla quale prese spunto, fra l’altro, il ministro della Difesa Spadolini per dimettersi e provocare una crisi di governo. Che si concluse rapidamente per un chiarimento intervenuto fra i due presidenti, accortisi di non essersi capiti al telefono per colpa del traduttore di turno. Il nome ? Ledeen, diavolo di un uomo.

Non troppo diavolo, tuttavia, pensai molti anni dopo, quando l’ambasciatore americano a Roma fra il 1977 e il 1981 Richard N. Gardner, sposato con una italiana, pubblicò con Feltrinelli le memorie sulla sua “Mission: Italy”. Un libro in cui su Moro, sequestrato e ucciso proprio durante il suo mandato diplomatico in Italia, Gardner espresse giudizi politici compatibili con quelli da me confidati a Ledeen. Che ne aveva fatto evidentemente buon uso, a meno che Gardner non si fosse fidato degli eventuali, pervicaci sospetti del suo informatore, o consigliere, e non avesse maturato per conto suo altre convinzioni.

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