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Tutte le panzane dietrologiche di Meloni e Salvini sulla mossa di Berlusconi pro Marchini

Meloni

Fortunatamente e finalmente spiazzati dal ritorno di Silvio Berlusconi al suo vecchio amore nella corsa al Campidoglio, che era stato Alfio Marchini già l’anno scorso, quando si consumava un po’ comicamente l’avventura di Ignazio Marino come sindaco di Roma, i poveri Matteo Salvini e Giorgia Meloni si sono persi il conto di chi darebbe ordini all’ex Cavaliere. La giovane fidanzata Francesca Pascale, alla quale il segretario della Lega non perdona di averlo definito “troglodita” e avrebbe quindi esercitato la sua influenza per resistere a lungo, con la candidatura di Guido Bertolaso, alla sorella dei Fratelli d’Italia? O il suo amico di sempre Fedele Confalonieri, che in nome e per conto della berlusconiana Mediaset, di cui è presidente, starebbe da mesi consigliandogli o di tornare al famoso “Patto del Nazareno” con Matteo Renzi o, in attesa di questo obbiettivo massimo, di non fargli la guerra più di tanto? Come se la candidatura di Marchini, rilanciata con l’appoggio di Forza Italia, fosse un aiuto e non una ulteriore complicazione per la candidatura dell’uomo di Renzi al Campidoglio, che è Roberto Giachetti.

Quest’ultimo infatti, consapevole che Marchini avrebbe più possibilità della Meloni di contendergli il ballottaggio con la grillina Virginia Raggi, ancora in testa nei sondaggi, non ha per niente gradito il ritiro della candidatura del berlusconiano Guido Bertolaso, a vantaggio appunto del giovane imprenditore romano.

O Berlusconi, come ha detto sempre Salvini, e poi ha ripetuto la Meloni, ha risposto agli ordini del suo vecchio alleato di governo Pier Ferdinando Casini? Che, in effetti, ha esultato per la “svolta epocale di Silvio”, essendosi esposto nei giorni scorsi con più di un’intervista per auspicare la convergenza di tutti i moderati attorno sulla candidatura di Marchini, capace più di Bertolaso di impedire che alla fine la partita capitolina si giocasse solo fra Giachetti e la Raggi o, peggio ancora, fra la Raggi e la Meloni. Ma pensare, francamente, che Casini sia nelle condizioni politiche e umane di dare ordini a Berlusconi, per quanto l’ex Cavaliere sia invecchiato ed abbia perduto uomini e voti per strada negli ultimi tempi, sino a fare scrivere a Ezio Mauro su Repubblica che “non sa come morire” politicamente,  è un po’ grottesco. Può venire in testa solo a Salvini, e alla sua candidata al Campidoglio, che si muovono un po’ come quelli che hanno perso il filo nel labirinto in cui si erano infilati con la loro sfida. Si, sfida, perché tale era stato il loro improvviso ripudio della candidatura di Bertolaso, dopo averla concordata con Berlusconi per smuoverlo dalla vecchia idea di sostenere Marchini.

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Dietro quella sfida del ripensamento sulla candidatura di Bertolaso molti ne hanno visto un’altra: alla leadership personale di Berlusconi, che a livello romano era contesa direttamente dalla Meloni e a livello nazionale da Salvini, uniti dalla stanchezza o insofferenza verso l’ex presidente del Consiglio e dalla convinzione di un suo ormai irrecuperabile declino. Ma uniti anche dalla paura, tradottasi non casualmente in una ostilità ossessiva, nei riguardi di Matteo Renzi. Che, oltre agli uomini, ha letteralmente rottamato gli schemi di gioco, e di schieramento, di quella che è stata la pur incompiuta e cosiddetta Seconda Repubblica. Una paura però che accomuna curiosamente la Meloni e Salvini all’odiato o poco tollerato Berlusconi. Del quale non condivido la rappresentazione, cui credono appunto anche la Meloni e Salvini, di un uomo tentato dall’idea di un nuovo “Patto del Nazareno”.

Non condivido questa storia di una nuova intesa con Renzi un po’ perché Berlusconi si è troppo spinto, o si è lasciato troppo spingere all’opposizione, alla maniera – per fare un nome – di Renato Brunetta, il capogruppo forzista della Camera. Lui stesso, d’altronde, ha appena detto al Messaggero, commentando il ritorno a Marchini: “Altro che Patto del Nazareno”.  E un po’ non condivido perché non mi sembra che di un nuovo accordo con Berlusconi abbia voglia Renzi, impegnato ormai solo a consolidare la propria leadership col referendum d’autunno sulla riforma costituzionale, per il quale l’ex presidente del Consiglio ha lasciato che i vari Brunetta s’intruppassero nel fronte del no con personalità, partiti e gruppi distantissimi dalla sua storia. Cosa, questa, che permetterà al Matteo fiorentino di tagliare altra erba ancora sotto i piedi di quello che fu il centrodestra.

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Un aspetto tutto personale, più che politico, ha in questo confuso scenario politico il problema o la collocazione di Giorgia Meloni, che ha obiettivamente, rispetto a Salvini, troppo pochi voti per poter davvero ambire ad una leadership.

Anche se, ai suoi tempi d’oro, quando Gianni Agnelli lo definiva, sia pure sarcasticamente, “intellettuale della Magna Grecia”, Ciriaco De Mita diceva che non esistono risposte o spiegazioni semplici a problemi complessi, propendo nel caso  della sorella dei Fratelli d’Italia ad una spiegazione, appunto, semplice. Che è quella fornita qualche sera fa in un salotto televisivo dall’uomo che un po’ inventò o educò alla politica la Meloni mandandola prima alla vice presidenza della Camera e poi al governo: l’ormai tramontato Gianfranco Fini. Che sicuramente la conosce meglio di me e di tanti altri che ne parlano o scrivono, nel bene e nel male.

Pur al netto della delusione e forse anche del rancore che può avere maturato per non averla vista al suo seguito nel 2010, quando decise di rompere con l’allora presidente del Consiglio ospitando nel suo ufficio di presidente della Camera i promotori di una mozione di sfiducia al governo, Fini ha detto che la Meloni è vittima di una diffusa e umana debolezza politica: il protagonismo. Cioè la voglia di vedersi illuminata sulla scena. Dove però ad un certo punto le luci inevitabilmente si spengono. E si resta al buio, come è accaduto anche a Fini.


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