Libia, Egitto, Iran, strategia Usa in Medio-Oriente, ma anche terrorismo e Isis. Ecco alcuni dei temi affrontati in una conversazione con Formiche.net da Brian Katulis, Senior Fellow presso il Center for American Progress, think tank di Washington fondato da John Podesta, capo di gabinetto della Casa Bianca durante la presidenza Clinton e presidente della campagna elettorale 2016 della moglie Hillary. Brian Katulis è un esperto di sicurezza, Medio-Oriente e antiterrorismo.
COSA ASPETTARSI PER IL FUTURO DELLA LIBIA
Prendendo spunto dal discusso sodalizio stretto tra il Presidente egiziano Abd al-Fattāḥ al- Sisi e il generale libico Khalifa Haftar – Capo di Stato Maggiore del governo cirenaico di Tobruk – Brian Katulis ha spiegato cosa pensa del supporto fornito dall’esterno alle diverse fazioni politiche che popolano il complesso panorama politico libico e come vede il futuro del Paese: “Prima di guardare alle dinamiche che coinvolgono gli attori esterni, è necessario soffermarsi ad analizzare quelle interne al Paese”, secondo Katulis. Sono le lotte intestine, infatti, ad aver portato alla frammentazione ultima della Libia – ha proseguito l’esperto – sebbene, poi, le interferenze esterne abbiano contribuito a esacerbare una situazione già di per sé logora. Per questo Katulis suggerisce che “la soluzione migliore consiste nel lasciar sceglier il popolo libico”. Una buona soluzione, secondo l’analista, è la “decentralizzazione del potere, creando una forma di stato federale” – Katulis ha portato ad esempio il modello statunitense – in cui singoli Stati membri, dotati di una propria autonomia, sono supervisionati da uno Stato centrale.
Sulla possibilità, poi, che qualcuno – sebbene non sia chiaro chi, né tanto meno come – possa intervenire nel Paese, Katulis spiega che gli “Stati Uniti non sono affatto attratti dalla possibilità di un secondo intervento militare in Libia, dal momento che nessuno vuole assumersi questo rischio”. Stati Uniti a parte, secondo l’analista il problema principale per cui l’Occidente fa fatica a capire se e come intervenire sta nel fatto che nella stessa classe dirigente politica libica – e qui Katulis si riferisce al governo tripolino di Fayez al-Sarraj – non si riscontra alcuna unità di intenti. Proprio la vaghezza delle intenzioni dei governanti libici, aggiunge l’esperto, “non farà altro che diminuire la possibilità che qualcuno prenda in mano le redini della situazione dall’esterno”.
L’IRAN E LA POLITICA DI NON PROLIFERAZIONE NUCLEARE
L’accordo siglato sul nucleare, tra i cosiddetti 5 + 1 e l’Iran, costituisce senza dubbio uno dei maggiori successi del Presidente Obama. E’ innegabile, tuttavia, che la firma dell’accordo abbia contribuito ad alterare alcuni equilibri nella regione, o quanto meno questo è quello che si percepisce dall’esterno. Secondo Katulis “l’accordo firmato lo scorso luglio è da considerarsi, indubbiamente, un successo, nella misura in cui mira a impedire all’Iran di dotarsi di un programma nucleare bellico”. Non a caso gli Stati Uniti di Barack Obama hanno fatto della non proliferazione nucleare uno dei loro cavalli di battaglia. Katulis, però, aggiunge anche che “simili accordi non posso considerarsi semplici trattati su carta stampata, in quanto necessitano di continui meccanismi per monitorarne e verificarne gli effetti”.
Sul modo in cui l’accordo potrebbe aver alterato gli equilibri nella regione, l’analista dice: “L’avvento al potere dell’Iran è da ricondursi alla Seconda Guerra del Golfo e non alla firma dell’accordo”. Sebbene l’ascesa al potere dell’Iran, in seguito all’invasione americana dell’Iraq, sia da considerarsi una conseguenza inintenzionale, di fatto la guerra impazzata nel 2003 ha permesso alla Repubblica degli Ayatollah di ampliare la sua influenza in Iraq, Siria e Libano. Tuttavia, prosegue Katulis, “non è trascorso nemmeno un anno da quando l’accordo è stato siglato, dunque tirare le somme sarebbe prematuro”. “Senza dubbio, nel breve periodo” – dice l’esperto – “sarà necessario continuare a contrastare l’Iran” in quanto stato che esporta e supporta il terrorismo. “Mentre nel lungo periodo, soprattutto cercando l’aiuto del Consiglio di Cooperazione del Golfo, gli Stati Uniti e l’Europa dovranno fare in modo che l’Iran e l’Arabia Saudita imparino a fidarsi l’uno dell’altra, poiché la firma dell’accordo è sì un pilastro importante per la costruzione di un apparato di sicurezza nella regione, ma non di certo l’unico”.
LA STABILITA’ EGEMONICA
Che succede in Medio Oriente? Partendo dalle recenti manifestazioni di amicizia tra Francia ed Egitto – complice il congelamento dei rapporti tra quest’ultimo e l’Italia – ed Egitto e Arabia Saudita, Katulis analizza il fragile equilibrio in Medio-Oriente. Precisato che durante la presidenza Obama gli Stati Uniti non abbiano fatto alcun passo indietro nella regione, come in molti invece credono, poiché – spiega Katulis – le scelta di politica estera a stelle e strisce sono state oggetto di una “visione distorta, frutto di una comprensione altrettanto falsata di quella che è l’effettiva contrapposizione tra forza e debolezza” per l’analista è difficile parlare di equilibrio quando si tratta di Medio-Oriente. Gli Stati della regione sono animati da una continua tensione – aggiunge Katulis – e lui questa tensione la definisce “shifting”, nella misura in cui i rapporti di forza tra gli attori coinvolti sono mutevoli. “Nel breve periodo” – dice l’analista – “è difficile pensare a un equilibrio sostenibile, poiché dalla competizione che anima la regione non c’è stato in grado di uscirne vincitore”. In altre parole, non ci sono i presupposti perché – stando a quanto insegna Robert Gilpin e la sua teoria della stabilità egemonica – dalla rivalità in corso emerga una potenza in grado di imporre la propria supremazia e, dunque, assicurare la stabilità del sistema.
COSA FARE (E CON L’AIUTO DI CHI) CONTRO ISIS
Cosa fare contro Isis? In qualità di esperto di sicurezza e antiterrorismo, Katulis consiglia di “guardare alla situazione interna agli Stati che sono vittime o che esportano e supportano il terrorismo”. Secondo l’analista, infatti, fin quando questi non saranno in grado di affrontare e gestire la questione della legittimazione politica, le organizzazioni terroristiche continueranno a sfruttare il vacuum creato da governi incapaci di adempiere ai propri doveri. È per questo che secondo Katulis, sebbene le strategie messe in campo finora abbiano prodotto i propri frutti, “è necessario continuare a percorrere anche la via dell’impegno diplomatico” – a tal proposito ha citato la recente visita del vice-presidente Joe Biden in Iraq – per assicurare la stabilità interna a quei Paesi in cui il terrorismo islamico prolifera.
Un ulteriore elemento di cui servirsi è la cooperazione con alcuni Stati della regione. Il riferimento è all’Arabia Saudita, le cui relazioni con la Casa Bianca, di recente, sembrano aver subito una battuta d’arresto. Sebbene Katulis abbia affermato che al momento “gli Stati Uniti non possono fidarsi completamente di nessuno nella regione”, questi ha anche aggiunto che Washington dovrebbe cercare di modellare l’influenza che Riyad esercita. “In quanto culla dell’Islam, e sede dei suoi principali luoghi di culto – per lo meno in ambito sunnita – l’Arabia Saudita dovrebbe fare in modo che smetta di circolare una versione estremista dell’Islam e, soprattutto, arrestare i flussi di finanziamenti provenienti dai privati cittadini”, conclude l’esperto.