L’ex presidente di Confindustria, il napoletano Antonio D’Amato, in un convegno sul Mezzogiorno a Napoli ha speso parole molto dure sullo stato di decadenza e di grave crisi della città, sottolineando come essa non sia più in grado di attrarre imprenditori nazionali e stranieri propensi ad investire i loro capitali. Il grave declino in cui versa è motivo di allontanamento anche da parte di chi già vive e opera come imprenditore nell’area napoletana.
Il clima politico ma anche quello sociale non sono tali da invogliare chicchessia a impiegare risorse per arricchire un’area del Paese tra le più critiche. La criminalità diffusa, l’individualismo esasperato, l’assenza di una borghesia acuta ed intraprendente sono ulteriori fattori che alimentano il disimpegno di tanti uomini d’azienda che pure vorrebbero investire a Napoli. Manca un disegno strategico di crescita e di sviluppo, è assente da decenni una visione aggiornata del piano urbanistico dell’area metropolitana. D’Amato esprime pensieri condivisi, come potrebbe essere diversamente, quando dichiara che è finita l’era della grande industria ed è necessario oggi puntare “sui colletti bianchi e sui centri direzionali”, ma purtroppo la scadente vivibilità blocca qualsiasi iniziativa di sviluppo concreto. Idea che il politologo prof. Paolo Macry approva, valutando lo stato di violenza che ormai Napoli vive quotidianamente, e non solo per la presenza della criminalità, ma quasi come condizione endemica.
Sicurezza e legalità sono aspetti discutibili della vita sociale napoletana. La palude in cui si trova non è effetto dell’opera avvenuta negli ultimissimi ultimi anni di governo, ma risale agli inizi del decennio del secolo scorso, quando aziende importanti come Italsider, Alenia, Mecfond, Sme agro-alimentare, Isveimer, Banco di Napoli hanno preso il largo trasferendosi al Nord o all’estero. Se si pensa che la direzione dei più importanti quotidiani di Napoli non appartengono alla città ci si renderà conto della perdita di influenza di questa antica capitale ridotta a colonia, dove arriva di tutto, compresi i rifiuti tossici.
Antonio D’Amato nella sua analisi veritiera e impietosa dice cose che non possono essere smentite: un atto di accusa alla classe dirigente dell’area napoletana, e non si parla solo di imprenditori, ma della pubblica amministrazione, del ceto politico, del mondo delle professioni, di quello universitario, del clero. Un mea culpa dovrebbe essere fatto da tutti, ma è difficile che si prenda atto delle proprie responsabilità, non a caso in questo avvio di campagna elettorale confuso e scadente c’è solo un rimpallarsi di errori e inadempienze. Si evita di affrontare il problema dei problemi, rappresentato da un nuovo assetto urbanistico per lo sviluppo armonico, coordinato e produttivo di Napoli e dell’Area metropolitana, ente quest’ultimo esistente sulla carta, ma privo di funzioni concrete, se non quelle che erano in capo alla vecchia Provincia.
Napoli ha bisogno come l’aria di classe dirigente, e questa può esistere se i partiti politici sono dotati di solidità culturale, praticano la democrazia interna, riescono ad avere una chiara linea politica sulle cose da fare, per realizzare bene comune.