Per quanto promosso e partecipato da tanto di professori, col solito codazzo di politici ed esperti veri o presunti della materia, il dibattito sul cosiddetto spacchettamento del referendum d’autunno sulla riforma costituzionale faticosamente approvata dalle Camere ha ben poco di accademico. E’ un dibattito tossico, servendo solo al tentativo di confondere le cose ancor più di quanto non lo siano già di loro, e soprattutto di scompaginare il quadro politico che il presidente del Consiglio Matteo Renzi, peraltro senza l’autorizzazione o il consenso – a quanto sembra – del consigliere superiore della magistratura Piergiorgio Morosini, si è proposto di costruire con questo appuntamento elettorale. Al cui esito egli ha appeso la sua stessa carriera politica, a soli due anni e mezzo dall’esordio di governo e a quasi tre dalla scalata alla segreteria del Partito Democratico.
Proprio per evitare che Renzi traduca la vittoria del sì in una vittoria politica personale, e dello schieramento che nei fatti si costruirà attorno a quel sì, si vorrebbe spacchettare, appunto, il referendum. Dividerlo cioè in due, tre, quattro e anche più parti, con altrettanti quesiti. uno, per esempio, sulle competenze del Senato, un altro sul suo metodo di elezione, un altro ancora sulle competenze regionali.
In questo modo i risultati potrebbero risultare diversi. Renzi potrebbe raccogliere contemporaneamente dei sì e dei no. Ciò gli impedirebbe di sventolare il referendum come un trofeo “cosmico”, ha detto ironicamente Pier Luigi Bersani. Ma potrebbe anche impedire ai suoi critici e avversari di sventolare contro di lui gli eventuali no alternati ai sì, incorrendo così i sostenitori dello spacchettamento anche in un’autorete, perché si consentirebbe a Renzi di incassare una sconfitta parziale senza grandi danni.
Se volessero veramente usare il referendum costituzionale contro di lui, gli avversari dovrebbero battersi contro lo spacchettamento, non a favore. E preoccuparsi solo di convogliare il maggior numero possibile di no contro il presidente del Consiglio, visto che questi ha avuto il coraggio, o compiuto l’imprudenza, secondo i gusti, di giocarsi tutto in questa partita. Altro che accademici, questi dello spacchettamento sono dei dilettanti della politica.
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Nel merito dottrinario e giuridico della questione, basta affacciarsi agli uffici della Cassazione, dove vanno depositati gli eventuali quesiti referendari plurimi, per sentirsi rispondere con una risata in faccia o con levate di spalle. I magistrati del Palazzaccio sanno benissimo che, anche se ad alcuni di loro venisse la tentazione di prestare orecchio a simili sirene, incorrerebbero poi nel giudizio negativo della Corte Costituzionale. Dove nessuno riesce francamente a immaginare una maggioranza di giudici disposta a stravolgere prassi e norme abbastanza consolidate.
Cominciamo dalla prassi. I due precedenti referendum costituzionali, svoltisi cioè su modifiche alla Costituzione approvate dal Parlamento senza la maggioranza dei due terzi, hanno avuto un quesito unico, pur essendo interessati alla riforma più articoli.
Il primo di questi referendum fu celebrato il 7 ottobre del 2001, purtroppo confermativo della riforma del titolo V della Costituzione, riguardante le competenze regionali, approvata in Parlamento a marzo dal centrosinistra nella illusione di sottrarre i leghisti al ritorno all’alleanza di governo con Silvio Berlusconi, dopo la rottura consumatasi alla fine del 1994. L’alleanza fra l’allora Cavaliere e Umberto Bossi fu ripristinata lo stesso nelle elezioni politiche del 13 maggio 2001 e il nuovo testo costituzionale produsse solo un contenzioso infinito tra governi e regioni davanti alla Corte Costituzionale.
Il secondo referendum costituzionale fu quello del 25 e 26 giugno 2006, che bocciò la riforma approvata dalla maggioranza di centrodestra, e riguardante ben 53 articoli della Costituzione. Una riforma peraltro che, se ratificata dagli elettori, anziché osteggiata furiosamente dalla sinistra e sostanzialmente boicottata anche da una parte del centrodestra, avrebbe forse risparmiato le fatiche di oggi a Renzi. Che invece, da presidente della provincia di Firenze, partecipò allora alla campagna del no capeggiata dall’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, avvolto nella bandiera della Costituzione “più bella del mondo”, e altre amenità del genere. Era una riforma che già contemplava competenze diverse fra Camera e Senato, riducendo i numeri di entrambe le assemblee.
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Lo spacchettamento viene invocato in nome della cosiddetta omogeneità, o chiarezza, come se una riforma organica della Costituzione, riguardante cioè un bel po’ di articoli, non dovesse essere di per sé omogenea. Ma si invoca anche il diritto già riconosciuto agli elettori di “abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge”, come dice l’articolo 75 della Costituzione. Che però riguarda i referendum appunto abrogativi di leggi ordinarie, per i quali è anche necessaria la partecipazione della metà più uno degli aventi diritto al vota: cosa ben diversa dai referendum costituzionali, senza alcun obbligo minimo di partecipazione, contemplati dall’articolo 138 della Costituzione per confermare o bocciare le modifiche apportate alla stessa Costituzione dalle Camere con una maggioranza inferiore a quella larghissima dei due terzi, comunque non al di sotto della maggioranza assoluta. Senza la quale nessuna riforma potrebbe essere varata dal Parlamento.
Di che cosa stiamo quindi parlando, signori accademici e codazzi politici? Del nulla. Con grande spreco di tempo, e di energie, per chi ritiene di averle. D’altronde, evidentemente consapevole pure lui degli umori della Corte Costituzionale, persino l’ex ministro leghista Roberto Calderoli, che è stato al Senato il più strenuo oppositore della riforma targata Renzi, presentando non migliaia ma milioni di emendamenti ostruzionistici, ha liquidato lo spacchettamento del referendum come una boiata.