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Ecco come Eugenio Scalfari accarezza e bastona Matteo Renzi

Deve averci pensato a lungo, sino a posticipare di qualche giorno il suo abituale appuntamento domenicale con i lettori, se non ha proprio deciso di cambiarne sistematicamente la scadenza, ma Eugenio Scalfari alla fine si è mosso, sia pure – come vedremo – a pesantissime condizioni, dall’iniziale, apparentemente irrinunciabile no alla riforma costituzionale targata Matteo Renzi e Maria Elena Boschi.

Sulla sua Repubblica di carta il pur severo ed esigente fondatore ha riconosciuto al presidente del Consiglio grande “abilità” anche sulla strada del referendum d’autunno sulla riforma costituzionale, appunto. “E’ stato bravissimo”, ha detto commentandone le cose dette prima a Rai 3, ospite di Fabio Fazio, e poi alla direzione del Pd. “Credo – ha aggiunto Scalfari – che abbia convinto molte persone incerte su come votare”, cioè sì, favorito anche dalla obiettiva assenza di alternative politiche in caso di crisi di governo seguita a un successo dei no.

Nonostante la validità “astuta” degli argomenti riconosciuta al presidente del Consiglio a favore della riforma e il “carisma” crescente – che “eguaglia e forse supera quello che ebbe Craxi ai suoi tempi” – Scalfari ha posto le sue “condizioni”, come si accennava, per convertirsi pure lui al sì. Condizioni che poi sono riassumibili in una sola, che ad occhio e croce Renzi non sembra in grado di accettare, a meno di clamorosi ripensamenti pure lui.

La condizione per il sì di Scalfari è la rinuncia, almeno con un impegno formale davanti alle “autorità” dello Stato prima del referendum, a cambiare la legge elettorale chiamata Italicum. Che dovrebbe essere sostituita – udite, udite – dal sostanziale ripristino della legge “ingiustamente definita truffa” con la quale Alcide De Gasperi nel 1953, mancando l’obiettivo nelle urne per un pelo, tentò di introdurre nel sistema proporzionale un premio di maggioranza a chi avesse superato la metà dei voti, sia pure di uno solo. Un premio non alla lista, come prevede l’Italicum, valido da luglio solo per l’elezione della Camera, essendo il Senato destinato ad altro tipo di formazione, ma alla coalizione. Un premio, infine, che non dovrebbe superare i 55 seggi di Montecitorio, in modo da non mettere completamente fuori gioco le opposizioni in un eventuale gioco di sponda con i dissidenti della maggioranza.

Alla condizione di Scalfari forse rinuncerebbero al no anche molti di quelli che oggi nel Pd sono decisi a contrastare la conferma referendaria della riforma costituzionale, e persino alcuni dei 56 giuristi, fra i quali una decina di presidenti emeriti della Corte Costituzionale, espostisi con una specie di manifesto contro il presidente del Consiglio. Che li ha liquidati davanti alla direzione del partito come “archeologi travestiti da costituzionalisti”.

A parte questo macigno del ritorno alla legge ex-truffa di De Gasperi, nonché di Mario Scelba allora ministro dell’Interno, e i riconoscimenti dell’”abilità” tattica, Scalfari ha tuttavia riservato molto fiele al presidente del Consiglio, forse mandando di traverso il caffè al direttore del giornale, Mario Calabresi, ma soprattutto all’editore Carlo De Benedetti.

Già il paragone con Craxi non è di buon auspicio, avendo Scalfari contrastato l’allora segretario socialista e poi anche presidente del Consiglio in tutti i modi, d’altronde ricambiato nell’ostilità. Ma il fondatore di Repubblica si è spinto ad evocare anche Benito Mussolini, come “il più dotato nel carisma demagogico” che lui intravvede in Renzi. E che potrebbe alla fine portarlo al “crollo”, sotto il peso di “errori economici”, di promesse non mantenibili e di una gestione del potere troppo personalistica.

“Il cerchio magico dei devoti non è la via giusta”, ha ammonito Scalfari chiedendo a Renzi una diversa selezione dei suoi amici e collaboratori e ricordandogli un lunghissimo elenco di personalità di rilievo che lo hanno preceduto nei settant’anni della Repubblica, in ruoli sia di maggioranza che di opposizione. Un elenco nel quale è purtroppo capitato al fondatore di Repubblica di pasticciare con la militanza politica di qualcuno che pure è stato fra i suoi collaboratori: per esempio, la mia vecchia amica scomparsa Miriam Mafai, compagna del comunista Giancarlo Pajetta, anche lei deputata nel 1994 con i “progressisti” guidati da Achille Occhetto, ma classificata da Scalfari – chissà perché – fra i socialisti.

Il monito finale di Scalfari a Renzi, nell’ambito dell’ormai solito panegirico di Papa Francesco, è stato quello di non dimenticare di essere o dover essere segretario di un partito “di sinistra”. Che notoriamente non è la collocazione riconosciuta nel Pd al segretario dai suoi più accaniti avversari.


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