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Vi racconto le tensioni tra economia immateriale e istituzioni

Pubblichiamo un estratto del libro di Stefano Quintarelli dal titolo “Costruire il domani. Istruzioni per un futuro immateriale” che è stato presentato giovedì 12 maggio a Roma (qui e qui le foto della presentazione)

L’immaterialità del digitale crea alcuni problemi a livello culturale, che poi ha conseguenze anche economiche. Poiché non tocchiamo il digitale, abbiamo difficoltà a percepirne il valore. Questo ha conseguenze (nocive) anche nelle scelte politiche di investire nel settore. Si è tentati a investire denaro e in generale a occuparsi di cose che hanno una dimensione materiale, che si vedono, si toccano, “pesano”. Questo perché storicamente siamo abituati ad apprezzare il valore solo di ciò che esperiamo con tutti i sensi.

La solidità del mattone è proverbiale come fonte di stabilità e di garanzie per il futuro. Gli asset materiali sono sempre stati un pilastro degli stati patrimoniali delle aziende. Eppure oggi viviamo in un mondo in cui la più grande società di autonoleggio non possiede un’auto (Uber), il maggiore media del pianeta non ha rotative (Facebook), il più grande ipermercato non ha magazzino (Alibaba), la più diffusa compagnia telefonica non ha centrali (Skype) ed il più grande fornitore di ospitalità non possiede palazzi (AirBnb). E sono tutte aziende nate da pochi anni che sono cresciute in un modo esplosivo (per essere più precisi, esponenzialmente) grazie alla mancanza di attriti della dimensione immateriale in cui operano.

Gli asset materiali hanno ancora l’importanza cui davamo loro, prima che la relazione con i clienti fosse re-intermediata da operatori totalmente immateriali? Un leader politico diceva che “il Colosseo lo abbiamo noi e, per venire a vederlo, i turisti dovranno venire a Roma”. “Ma lo venderanno degli olandesi e noi dovremmo spolverarlo”, chiosava un mio amico esperto di turismo che evidenziava come gli albergatori (e presto i ristoratori) pagassero commissioni a intermediari oltre il 20% del prezzo (IVA inclusa).

Se Google, il motore di ricerca dominante in Occidente, ci penalizza nelle ricerche togliendoci dagli elenchi, il nostro sito/servizio/prodotto sarà come la voce di un uomo che grida nel deserto. Se Booking ed Expedia, i principali intermediari alberghieri, ci tolgono dai propri elenchi, il nostro hotel sarà quasi inesistente.

Tra alcuni anni il maggior concorrente della Brembo, la nota azienda che produce freni, potrebbe essere Amazon, che pure non ha fonderie ma controlla la relazione con il cliente.

La dimensione immateriale tende a prevalere su quella materiale nel rapporto con gli utenti ed i consumatori; quella sensazione di fiducia, di affidabilità data dalla concretezza del materiale viene messa a dura prova da nuovi equilibri che si possono costituire ad una velocità impensabile mettendo in crisi solidità secolari. E noi lo percepiamo per il nostro lavoro, per i nostri beni, i nostri investimenti e redditi futuri e questa volatilità ci provoca disagio.

Come osserva Charles Leadbeater, le invenzioni di fine del diciannovesimo secolo che hanno plasmato il ventesimo secolo dal telegrafo, al treno, all’auto, al telefono, all’aeroplano, al cinema, alla televisione, alle macchine, hanno determinato la nascita e lo sviluppo di poderose organizzazioni; il loro potere era intrinsecamente connesso ai miglioramenti degli standard di vita ed era associato ad una evoluzione delle istituzioni. Basti pensare ai rapporti sindacali, alle relazioni di politica industriale o allo sviluppo delle infrastrutture.

Dopo l’avvento della digitalizzazione, grazie agli effetti generati dalla possibilità di interazioni cognitive ed economiche globali in tempo reale, l’innovazione tecnologica e scientifica ha accelerato esponenzialmente, ma quella istituzionale è rimasta sostanzialmente invariata.

Questo differenziale tra la velocità di cambiamento tecnologico e quella di innovazione delle istituzioni è una delle fonti del nostro disagio. Dalle garanzie per i consumatori a quelle per i lavoratori alla concorrenza globale non abbiamo sin qui fatto un buon lavoro per costruire le istituzioni necessarie a proteggerci dai rischi e a diffondere ed approfittare dei benefici portati dallo sviluppo immateriale.

Le fondamenta della nostra economia stanno cambiando, il baricentro sta subendo a velocità crescente uno spostamento dimensionale, probabilmente in modo incompatibile con il tempo necessario per una innovazione istituzionale incrementale, non radicale. Anche le organizzazioni aziendali tradizionali rispecchiano tempi passati; sono state concepite e si sono strutturate per ottenere il massimo degli asset fisici.

Le organizzazioni aziendali determinate dalla progressiva dematerializzazione dell’economia dovranno avere modalità di gestione assai differenti da quelli tradizionali. È una grande sfida per le piccole e medie imprese italiane a forte vocazione padronale imprenditoriale. Ma solo così potranno sfruttare al meglio i propri asset distintivi, che saranno, nella stragrande maggioranza dei casi, immateriali.

Nonostante l’economia immateriale metta la conoscenza e quindi le nostra capacità al centro dei modelli di produzione, molti di noi si sentono più incerti, insicuri, e le nostre vite più in balia di fattori ingovernabili. Molte persone percepiscono che forze che non comprendono stringono le loro vite come in una morsa: mentre pochi privilegiati ai vertici della piramide conquistano fette crescenti di ricchezza, molti altri vedono la propria vita più a rischio, il loro futuro più indeterminato, si sentono impotenti.

Ma questo senso di impotenza è un fallimento istituzionale; non degli individui. Gran parte delle istituzioni che ci hanno guidato e protetto quando la società e l’economia erano basati sulla materialità oggi sembrano inadatte ad affrontare il nuovo ordine. Il secolo scorso ci ha portato innovazioni istituzionali che hanno accompagnato la trasformazione industriale come l’allargamento della democrazia, il welfare pubblico e privato, le rappresentanze sindacali organizzate di lavoratori e organizzazioni datoriali, la ricerca scientifica dei laboratori ed università. Al tradizionale conflitto tra lavoro e capitale (cuore delle trasformazioni – e ahimè delle guerre – che hanno caratterizzato il ventesimo secolo portando a queste istituzioni di tutela e garanzia), si sta sovrapponendo un altro conflitto. Da una parte, chi all’interno di queste tutele e garanzie si trova perché inserito in un contesto passato. Dall’altra, chi invece ne rimane escluso perché già operante in un futuro diverso, portato dalla evoluzione tecnologica che sfilaccia la società.

Questa sovrapposizione di conflitti sta accadendo con una velocità caratteristica dell’immateriale, perché a queste tecnologie è legata e con questi strumenti comunica e si trasmette. Il tutto in modo quasi invisibile a chi è legato ai rapporti tradizionali della dimensione materiale che non riesce a percepire e quindi a decodificare la trasformazione in atto.

Siamo proiettati balisticamente nell’economia immateriale ma ci basiamo ancora su istituzioni ereditate dall’economia materiale industriale del ventesimo secolo, incapaci di proporre una visione per affrontare queste sfide. Abbiamo una società che vive vere e proprie rivoluzioni scientifiche e tecnologiche, con progressi che accelerano in tutti i settori chiave, dalla salute all’energia, ma siamo sostanziali conservatori in politica e nelle istituzioni. Il tutto, per tutelare diritti maturati in una epoca che non esiste più.

Nel frattempo, le persone che non avranno le storiche istituzioni di tutela e garanzia devono anche sostenere buona parte del peso delle “vecchie” istituzioni.

A quelle persone dovremo dare una nuova visione del futuro. Per quelle persone dovremo inventare nuove soluzioni. È questa la fonte principale del disagio che viviamo: la nostra incapacità di proporre una visione e innovare in modo radicale.



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