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Perché il “grillino” Marco Pannella non ha mai avuto il boom elettorale di Beppe Grillo

Marco Pannella se n’è andato senza che facessi in tempo a chiedergli perché mai in questo strano paese gli elettori si siano fidati, sul fronte della protesta e della rivendicazione di una onesta gestione delle istituzioni e di tutto il resto, più di un comico come Beppe Grillo, che ha sfiorato nelle ultime elezioni politiche il primo posto nella graduatoria delle liste, che di uno come lui. Arrivato in tutta la sua lunghissima vita politica a un massimo dell’8,5 per cento, con Emma Bonino intestataria della lista e in un turno elettorale ininfluente ai fini degli equilibri nazionali perché riguardante, nel 1999, il rinnovo del Parlamento europeo.

Lui mi avrebbe probabilmente risposto definendo con una parolaccia delle sue l’elettorato italiano, che pure gli ha dato sul terreno della conquista dei cosiddetti diritti civili, a cominciare dal divorzio, soddisfazioni grandissime. E molte di più gliene avrebbe date se la Corte Costituzionale, da lui definita più volte “una cupola” ritenendola condizionata più dalla politica che dalla neutralità, non avesse tagliato la strada ad alcuni dei tanti referendum promossi dai radicali: forse anche troppi, per cui ad un certo punto sembrò che se ne facesse un’indigestione, a dispetto dei digiuni così frequentemente praticati da Marco e dagli amici.

Superiore alla diffidenza, a dir poco, di Pannella verso la magistratura costituzionale del Palazzo della Consulta fu solo quella verso la magistratura ordinaria, che egli tentò mille volte, e inutilmente, di riportare nei ranghi e limiti della Costituzione, specie dopo l’autentico scandalo giudiziario costituito dalla vicenda di Enzo Tortora. Uno scandalo rimasto impunito, con la carriera garantita a tutti quelli che ne furono responsabili. Fu suo, di Pannella, anche il referendum svoltosi nel 1987, stravinto e poi tradito da una nuova legge ordinaria, per la responsabilità civile dei magistrati.

Nei referendum egli vide l’unico mezzo per aggirare le incrostazioni delle istituzioni e dei partiti. E di che partiti, essendovene ai suoi tempi giovanili di forti e davvero organizzati, come il Pci e la Dc. Da lui letteralmente spaccati nella loro base elettorale, per esempio, con il referendum del 1974, peraltro imprudentemente promosso dai cattolici. Che, grazie all’intelligente contro-campagna condotta da Pannella mettendo miracolosamente insieme i capi di tutti i partiti laici, anche i più diversi politicamente fra loro, non confermò soltanto la legge sul divorzio, ma cambiò gli equilibri politici italiani.

Proprio quel risultato forse non fu mai perdonato a Marco, né dai partiti che ne subirono i danni, come la Dc, né da quelli, curiosamente, che ne ricavarono vantaggi, come il Pci, arrivato d’altronde all’appuntamento referendario in modo riottoso, avendo inutilmente tentato, d’intesa più o meno nascosta con la Dc, di evitare il referendum modificando la legge sul divorzio in Parlamento.

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Non ho avuto la possibilità, non incontrandoci più da qualche tempo e non piacendomi le visite al capezzale, o quasi, per la facilità con la quale si prestano ad essere fraintese, di chiedergli, dicevo, perché mai questo fottuto elettorato italiano – scusatemi la parolaccia di stampo pannelliano – abbia preferito a lui un attore comico di tante delle sue cause di onestà e trasparenza. Ma lui, dopo un’altra parolaccia istintiva, avrebbe ripiegato probabilmente su una riflessione più pacata, tra una tirata e l’altra di quel dannato fumo di cui non si è voluto privare sino alla fine. Ed avrebbe convenuto con la stranezza, già accennata, di questo paese, capace di innovazione, quando vi è trascinato da un uomo della forza e dell’ostinazione come seppe essere lui, ma poi incline alla pigrizia, come stremato dallo sforzo precedente.

Alla stranezza, quanto meno politica, di questa nostra Italia, d’altronde, contribuì anche Pannella. Al quale non perdonai mai – e questo feci in tempo a dirglielo, mettendolo una volta tanto in imbarazzo – il no opposto a cavallo fra il 1992 e il 1993 alla richiesta fattagli da un ormai declinante Bettino Craxi, già raggiunto dal primo avviso di garanzia per Tangentopoli, di travasare i radicali nel Partito Socialista, come i rispettivi elettorati avevano già fatto in tanti referendum, assumendone la guida.

Pannella rifiutò, preferendo continuare a giocare come il gatto con i topi. Egli riuniva di prima mattina tutti i parlamentari che si sentivano minacciati insieme dalle iniziative dei magistrati e dalla tentazione dell’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, per la cui elezione peraltro Marco si era tanto adoperato, di sciogliere il prima possibile il Parlamento eletto nella primavera del 1992. Un Parlamento dove non passava quasi giorno senza che arrivasse una richiesta giudiziaria di autorizzazione a procedere, e poi anche all’arresto, quando deputati e senatori spontaneamente, come ipnotizzati dalla paura, ridussero la portata dell’immunità loro garantita dall’originario articolo 68 della Costituzione.

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Quel no di Pannella a Craxi lasciò la sinistra, praticamente, nelle sole mani di un partito – il Pds, ex Pci – allineato tanto pregiudizialmente quanto opportunisticamente alle Procure della Repubblica su una linea che più antigarantista non poteva essere, rivelatasi utile a contrastare vecchi e nuovi avversari politici, ma destinata poi – come sta sperimentando Matteo Renzi, pur cercando di dissimulare le sue preoccupazioni – a ritorcersi contro il Pd, nato nel 2007 dall’unificazione fra i resti dei comunisti e della sinistra democristiana.

Per quanto non gli abbia mai perdonato quel rifiuto, ho inutilmente sperato sino all’ultimo che Pannella morisse – scusate il bisticcio delle parole – da senatore a vita. Non c’è stato verso perché al Quirinale si desse ascolto a questa attesa avvertita da tante parti. La motivazione della nomina si può trovare nelle nobili parole di commiato da Pannella pronunciate – e stampate sulla prima pagina del giornale del Pd – dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Che avrebbe potuto usarle quando Marco era ancora in vita in un decreto di concessione del laticlavio.



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