Lunedì sette attentati coordinati e contemporanei hanno squarciato la bolla di sicurezza del regime in due città siriane controllate dai lealisti e dove la presenza dei militari russi è forte. Tre attacchi suicidi e un’autobomba hanno colpito Jableh, sede di una base aerea installata da Mosca all’inizio dell’intervento militare in Siria (settembre 2015), mentre due kamikaze e un’altra autobomba sono saltati in aria a Tartus, dove si trova uno storico porto militare russo sul Mediterraneo. Bilancio conclusivo, 148 morti e centinaia di feriti. Lo Stato islamico ha rivendicato gli attacchi, congratulandosi con i “martiri” che sono riusciti per la prima volta a colpire con gli attentati il cuore dei territori controllati da Damasco grazie alla presenza sul campo della Russia.
IL REGIME NON È SICURO NEMMENO A CASA
È una questione sostanziale, perché oltre cento morti in un territorio che si pensava fosse il più protetto di tutta la Siria, possono cambiare le coscienze, l’opinione pubblica, e significano che lo Stato islamico ha ramificazioni profondissime. Attacchi del genere sono infatti frutto di una lunga pianificazione, che richiede sopralluoghi, contatti, organizzazione, tutto avvenuto sotto gli occhi dell’esercito siriano che protegge quelle aree a maggioranza alawita (la setta sciita di cui fa parte la famiglia del presidente Bashar el Assad), e degli alleati del regime (leggasi, in questo caso, i russi). Per questo la linea propagandistica di Damasco s’è subito messa sull’offensiva, accusando per la strage non l’Is, ma la Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita, che avrebbero usato il gruppo come “arma non convenzionale” per destabilizzare il potere siriano e far deragliare gli sforzi negoziali (notare che i media di stato siriano hanno sminuito la dimensione degli attentati, dimezzando il numero dei morti: sempre per seguire quella traiettoria propagandistica).
LA STRATEGIA DEGLI ATTENTATI
Quella degli attentati è la nuova, vecchia linea sposata dallo Stato islamico. Il gruppo è noto per questo genere di attacchi, che hanno seminato il panico e spinto la guerra civile ai tempi dell’invasione americana in Iraq e negli anni successivi. Come spiegato da Daniele Raineri sul Foglio “una delle prime decisioni tattiche prese dal capo Abu Bakr al Baghdadi” nel 2012, ai tempi dell’ascesa del gruppo, fu “mandare dieci autobomba a colpire in parti diverse dell’Iraq nello spazio di una mattina, per dare l’idea di una minaccia ubiqua e di un potere troppo forte per essere fermato”. La strategia attuale potrebbe sembrare una regressione del gruppo, segno di un indebolimento territoriale, e dunque militare, che è supportato anche dai numeri. Il Pentagono la scorsa settimana ha comunicato che il Califfato ha perso il 45 per cento di territorio in Iraq e il 20 in Siria, eil dato significativo non è tanto la quantità ma il fatto che cominci a mancare la continuità territoriale. Con la vittoria di Rutba, annunciata gioverdì 19 maggio dal governo iracheno, e una volta liberata Falluja (la cui offensiva non sarà facile ed è soltanto agli inizi), centinaia di chilometri quadrati intorno a Baghdad saranno liberi dai jihadisti. Ma la vera forza della Stato islamico, come più volte ricordato, sta nella duplice consistenza, statuale e terroristica. E infatti, nonostante tutto il gruppo ha continuato a martellare con attentati i quartieri sciiti della capitale irachena, uccidendo decine e decine di persone soltanto negli ultimi dieci giorni. Sabato scorso, intervistato da Repubblica, il professore della Northeastern University di Boston, Max Abrahms, considerato “tra i maggiori esperti americani di conflitti asimmetrici e di terrorismo internazionale”, spiegava che questa campagna di attentati è legata alle difficoltà che lo Stato islamico sta incontrando in Iraq e Siria. Ma per questa ragione Abrahms pensa che ci sia la possibilità che il gruppo colpisca ancora con più determinazione in Europa, che è considerato un “soft target”. E in più, a differenza dei tempi dell’insurrezione in Iraq, ora “lo Stato islamico ha un territorio tutto suo, in cui gode di una relativa impunità” e in cui trovare protezione, analizza Raineri, ed inoltre “ha allargato la mira all’estero, non ci sono più soltanto Baghdad e Bassora, ci sono anche Bruxelles, gli aerei passeggeri, gli Europei in Francia”.
L’IS NON È MENO FORTE?
Non va dimenticato infatti che gli attentati che hanno colpito Parigi e il Belgio sono stati pianificati a lungo in Siria, e questo è sottolineato nei video di rivendico diffusi dai media dello Stato islamico. E allora, le domande, a cui non esiste una risposta univoca, che gli analisti si stanno ponendo, sono: uno Stato islamico che perde ampie fette del territorio controllato, che per assurdo potrebbe essere sconfitto nelle sue roccaforti, è uno Stato islamico più debole? Le decapitazioni nella catena di comando con raid mirati contro i leader creano destabilizzazione nell’organizzazione? E insomma, le campagne terroristiche sono frutto di un nervosismo, di una rappresaglia, a fronte di questa debolezza? Se la situazione sarà più gestibile o meno pericolosa è presto per dirlo: intanto le cronache consegnano decine di morti ogni giorno per attentati in Siria e in Iraq, in Yemen, in Libia, in Europa, ed è possibile che si tratterà di una strategia di lunga durata. Verisk Maplecroft, una società del rischio di consulenza con sede a Londra, ha riferito al Wall Street Journal che gli attacchi suicidi continueranno per tutto il 2016 come “dimostrazione di forza”. Gli analisti militari americani in Iraq, secondo il Foglio, “si preparano già alla prossima fase della guerra, quella in cui i santuari dello Stato islamico cadranno, il gruppo si frammenterà e disperderà in tutte le direzioni e comincerà un’insurgency in clandestinità come negli anni della guerra americana in Iraq”.
(Foto: Wikipedia, cordoglio davanti all’ambasciata francese a Mosca dopo gli attentati del 13 novembre 2015)