E ora? Che succede con l’addio ufficializzato (e voluto dai grandi soci) di Federico Ghizzoni da Unicredit? Chi sarà il prossimo amministratore delegato? E soprattutto: cosa dovrà fare? Un aumento di capitale (su cui Ghizzoni non concordava troppo) o una vendita di asset? O entrambe? Ecco alcune delle domande che si pongono addetti ai lavori, analisti e risparmiatori dopo le ultime novità nel gruppo bancario presieduto da Giuseppe Vita, anch’egli in verità non troppo sereno e saldo ai vertici della banca secondo alcune recenti indiscrezioni di stampa.
LA NOTA
“Il cda di Unicredit e Federico Ghizzoni hanno constatato che sono maturate le condizioni per un avvicendamento al vertice”. E’ quello che si legge nella nota di ieri dopo il consiglio di amministrazione di Unicredit. Ghizzoni ha “dato la propria disponibilità a definire, insieme al presidente, un’ipotesi di accordo per la risoluzione del rapporto, da sottoporre poi agli organi competenti, impegnandosi comunque a mantenere le proprie funzioni sino alla nomina del suo successore”. Il consiglio ha infine ringraziato Ghizzoni per “l’alta qualità del lavoro svolto, con grande competenza e totale dedizione in condizioni di mercato estremamente difficili”.
LA BUONUSCITA
Sembra che i dettagli economici siano già definiti, ha scritto oggi il quotidiano la Repubblica in un articolo di Andrea Greco: al capoazienda uscente andrà un appannaggio che – tra Tfr, spettanze fino al 2018 (data di scadenza del mandato), buonuscite e monetizzazione di bonus e azioni – supererà i 10 milioni di euro. Ghizzoni, ha aggiunto il comunicato, “manterrà le proprie funzioni sino alla nomina del suo successore, supportandolo poi, adeguatamente, nella opportuna fase di transizione deleghe ordinarie fino alla nomina del nuovo ad”.
LA QUESTIONE PATRIMONIALE
Ma perché cambiare il capo azienda? In mancanza di spiegazioni ufficiali, osservatori e analisti ritengono che sia stata in particolare la necessità di un aumento di capitale il motivo dell’addio di Ghizzoni, che non era forse favorevole a un’operazione del genere: poteva dare la sensazione di un’ammissione di responsabilità sulla solidità del bilancio, fiaccato come per tutte le banche europee dall’incremento delle sofferenze. Aumento di capitale che invece Ghizzoni pilotò subito dopo aver preso il posto di Alessandro Profumo nel settembre del 2010. Per questo su Facebook Carlotta Scozzari del Messaggero ha scritto nella sua “rubrica” “Cara zia Imma”: “Perché è sempre colpa di qualcun altro e perché, come dice Rust di True detective, “il tempo è un cerchio piatto. Ogni cosa che abbiamo fatto e faremo la faremo ancora e ancora e ancora”. Ora il parametro cosiddetto «Cet1», che misura il patrimonio di migliore qualità, è oggi al 10,85% rispetto al minimo Srep del 10% per le banche sistemiche, com’è Unicredit, unica italiana fra le “global sifi”. Gli analisti stimano dunque che siano necessari fra i 4 e gli 9 miliardi, a seconda dei casi.
I DUE SCENARI DI JP MORGAN
Un report di Jp Morgan ha evidenziato due scenari, scrive oggi il Corriere della Sera: quello «più probabile» è un aumento da 5,4 miliardi e insieme la vendita del 15% della banca online Fineco. Toccare Fineco, di cui Unicredit ha il 65% circa, “non sarebbe una mossa indolore, visto che nella galassia Unicredit è tra le controllate che macinano più utili”, sottolinea Fabrizio Massaro del quotidiano Rcs: “ Rinunciare a un pezzo di Fineco implicherebbe una diluzione dell’utile per azione di circa il 22%. Ma farebbe alzare al 12,5% il Cet1”. Il secondo scenario è più aggressivo: un rafforzamento monstre da 9 miliardi. A quella cifra si arriverebbe con un aumento per 5 miliardi e le cessioni del 45% di Fineco e del 20% della polacca Bank Pekao, di cui il gruppo ha circa il 50%. Con queste mosse il patrimonio schizzerebbe al 13,4% ma l’utile si diluirebbe del 27%. Tutto questo, sulla carta. In realtà, sottolinea la banca Usa, le cessioni della Polonia e della Turchia (la joint venture Yapi Kredi) sono «improbabili» proprio per l’impatto sugli utili.
I DOSSIER IN BALLO
Per questo ora si aprono alcune domande che sono anche dei dilemmi. Meglio un aumento di capitale per rafforzare il patrimonio col rischio per le fondazioni azioniste di diluirsi nella compagine azionaria? Oppure spingere nella vendita di asset e di partecipazioni con il rischio però di incidere negativamente sulla redditività, quindi sugli utili e dunque sui dividendi? Inoltre c’è anche una questione di perimetro aziendale. Scrive oggi Alessandro Graziani del Sole 24 Ore ponendosi una domanda che si stanno facendo con tutta probabilità molti soci: “La presenza paneuropea, avviata a inizio 2000 in contemporanea con il grande progetto politico dell’allargamento a Est dell’Unione europea, sarà depotenziata in concomitanza con gli scricchiolii del progetto comunitario?”.
LA QUESTIONE VICENTINA
A incidere nei rapporti tra capo azienda e grandi soci è stata anche la vicenda dell’aumento di capitale della Popolare di Vicenza. Il gruppo di Ghizzoni aveva sottoscritto un contratto di pre-garanzia nel caso la ricapitalizzazione dell’istituto veneto non andava in porto. Anche per evitare che la crisi di Vicenza arrivasse a indebolire Unicredit – ha ricordato oggi il Fatto Quotidiano – il governo ha benedetto il fondo Atlante (partecipato dalle banche e pure dalla Cassa depositi e prestiti) che ha sottoscritto l’aumento di capitale della Popolare di Vicenza.
I CANDIDATI PER LA SUCCESSIONE
Tra gli azionisti è forte la convinzione che il nuovo capoazienda dovrà essere un esperto di banca commerciale più un banchiere d’affari, scrive il Corriere della Sera oggi: per questo motivo Marco Morelli, numero uno di Bofa-Merrill Lynch in Italia ma già a capo della Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo, viene dato in pole position, e sarebbe anche una figura gradita al governo (giorni fa il quotidiano la Repubblica aveva rimarcato che Morelli è amico da circa 15 di Marco Carrai). Ma anche un banchiere come Sergio Ermotti, capo di un colosso come Ubs, viene considerato in corsa nonostante le dichiarazioni contrarie, scrive il Corsera. In pista sono dati pure Alberto Nagel (Mediobanca), Jean-Pierre Mustier (ex Unicredit) e Gaetano Micciché (Banca Imi).