La situazione in Libia resta caotica, anche perché i membri della comunità internazionale perseguono obiettivi diversi. Non esiste una strategia comune, né un centro di coordinamento che possa elaborarla. O meglio, esistono solo in campo navale, del tutto marginale per la distruzione dell’Isis e la stabilizzazione del Paese.
La Francia sostiene sempre più apertamente il generale Haftar e il governo di Tobruk, sponsorizzati dall’Egitto e dagli Stati del Golfo, eccetto il Qatar. Gli Usa, con cui dobbiamo allinearci per contare qualcosa, mantengono il piede in due staffe: hanno un gruppo di forze speciali a Misurata e uno a Bengasi. Hanno poi priorità diverse da quelle italiane. A Washington interessa distruggere l’Isis, senza impegnarsi oltre un certo limite, come dovrebbero fare se volesse stabilizzare il Paese, il che implica il disarmo delle milizie e delle gang criminali ad esse sempre più strettamente associate.
L’Italia tentenna. Forse è la politica più ragionevole. Se non facessimo così, non potremmo salire sul carro del vincitore. Finora sembrava che appoggiassimo senza riserve Serraj e il suo Consiglio Presidenziale, nella speranza che ottenesse il sostegno anche della Camera dei Rappresentanti di Tobruk e potesse divenire un governo di unità nazionale. Le probabilità che lo diventi stanno rapidamente sfumando, nonostante gli sforzi del volenteroso Martin Kobler, inviato speciale del Segretario Generale dell’ONU.
Nel frattempo il generale Haftar si è rafforzato. Ha ricevuto fondi e armi. Sta ottenendo buoni successi in Cirenaica. Tutti si aspettano che muova verso Sirte, la roccaforte dell’Isis in Libia. Se riuscisse a farlo avrebbe il sostegno di gran parte dell’Occidente. Gli avrebbe tolto una castagna bollente dal fuoco. Delegittimerebbe Serraj, forte della legalità attribuitagli dall’Onu ma che la massa dei libici considera un burattino al servizio di interessi che non sono i loro e, soprattutto, non dispone di una forza militare propria.
Una volta tanto il governo italiano è stato realistico. Gli assetti politici della Libia dipenderanno dall’evolversi della situazione sul terreno. Pur di togliersi dai piedi lo Stato Islamico, è verosimile che tutti i governi occidentali siano disponibili ad abbandonare Serraj. Forse anche a riconoscere una divisione di fatto del paese fra la Cirenaica e la Tripolitania, soluzione auspicata da quel profondo conoscitore della realtà libica che è l’ex-amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni.
Un po’ a sorpresa, un paio di settimane fa il nostro ministro degli esteri, prendendo atto dei successi di Haftar, ha affermato che gli dovranno essere riconosciuti poteri e autorità adeguati nel futuro ordinamento della Libia. Ciò è in chiara contraddizione con l’accordo di Skhirat, in particolare con il suo articolo 8 che attribuisce al Consiglio Presidenziale, cioè a Serraj, l’autorità di designare ministro della difesa e comandante delle Forze Armate. Anche se non sono state specificate, le dichiarazioni di Gentiloni sono più che chiare. Se Haftar distruggerà l’Isis in Libia, con l’appoggio dal mare delle marine occidentali che impediranno che venga rifornito e riceva dalla Siria e dall’Iraq nuovi effettivi, Serraj dovrebbe nominarlo capo delle Forze Armate. Verosimilmente firmerà con ciò la fine del suo potere se non la sua sentenza di morte. Di certo il caos libico non cesserà. I tripolitani non accetteranno mai di essere dominati da Haftar. Le loro milizie non disarmeranno. L’ambizioso generale non avrà la forza di farlo.
Per evitare che la guerra civile continui, la comunità internazionale dovrà trovare qualche altro marchingegno per affrontare la situazione. Molto verosimilmente esso comporterà la divisione del paese. Allora l’Italia deciderà che cosa fare per salvaguardare i propri interessi, in particolare per contenere le ondate immigratorie che dalla Tripolitania raggiungono il suo territorio. La soluzione “Scaroni” costituisce il “Piano B”, da adottare qualora la soluzione Serraj non possa funzionare. Implicitamente il ministro Gentiloni l’ha riconosciuto.