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Cosa succede davvero tra Renzi e Bersani su Costituzione e Italicum

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Qualcosa forse si muove dietro la facciata dei no di Matteo Renzi alle richieste della minoranza del Pd di attenuare con qualche concessione sulla nuova legge elettorale della Camera il forte clima di contrasto in cui si sta svolgendo la lunga campagna referendaria sulla riforma costituzionale. Tanto forte da averla sovrapposta alla fase conclusiva della campagna per il primo turno delle elezioni amministrative, che si svolgerà domenica prossima.

Vorrà pur dire qualcosa se il giornale del Pd, la storica Unità, ha scomodato il suo ex direttore Emanuele Macaluso per intervenire nel dibattito, lasciandogli esprimere le sue già note preoccupazioni proprio sulla legge elettorale della Camera, rinvigorite peraltro con un rimando esplicito all’amico presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Che già in sede di approvazione della riforma costituzionale al Senato raccomandò al governo di non sottovalutare taluni “problemi” sollevati dalle opposizioni, fra i quali quello della legge elettorale della Camera.

Ma oltre al vecchio e saggio ex direttore, il giornale del Pd ha ospitato nello stesso giorno una lunga e per niente arrendevole intervista dell’ex segretario del partito Pier Luigi Bersani, vistosamente richiamata in prima pagina. In essa si ripropone anche il tema, non precluso dalla formula compromissoria adottata nella riforma, di un’elezione diretta del nuovo Senato, composto sì da consiglieri regionali, e sindaci, ma non necessariamente designati dai rispettivi Consigli, visto che “i seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio”. Così dice testualmente il previsto nuovo articolo 57 della Costituzione.

Ciò potrebbe comportare, nella legge ordinaria che potrà essere naturalmente presentata, discussa e approvata dalle Camere solo se la riforma costituzionale supererà il referendum d’autunno, o l’assegnazione dei seggi ai candidati ai Consigli regionali più votati dagli elettori o addirittura la loro designazione diretta da parte dei cittadini con apposita scheda elettorale. Cosa, questa, che fu già inutilmente proposta dall’ex vice presidente di Palazzo Madama Vannino Chiti, della minoranza del Pd, con la formula delle “due schede” per l’elezione dei Consigli regionali, una delle quali per la scelta del consigliere destinato a fare anche il senatore. Proposta che venne accantonata col compromesso già ricordato.

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Un altro compromesso potrebbe essere quello, in caso di vittoria del sì al referendum, di un recupero sostanziale dell’elezione diretta del Senato, contemporaneamente con l’elezione dei Consigli Regionali, salvo una norma transitoria per la formazione del primo Senato, in attesa del rinnovo delle amministrazione regionali in carica, in cambio della rinuncia delle opposizioni, ma in particolare della minoranza del Pd, al ritocco della legge elettorale della Camera.

Ma il problema dell’Italicum, come si chiama la legge per l’elezione dei deputati, che dà il premio di maggioranza alla lista che supera il 40 per cento dei voti al primo turno o prevale nel ballottaggio anche di un solo voto sulla seconda lista, potrebbe essere riaperto in teoria, a vantaggio delle opposizioni, dalla Corte Costituzionale. Che si pronuncerà su questa legge proprio in ottobre, nello stesso mese del referendum sulla riforma costituzionale.

Se i giudici della Consulta troveranno qualcosa da eccepire, per esempio sul ballottaggio sprovvisto di una soglia minima di partecipazione alle urne, o sui capolista bloccati che possono essere proposti contemporaneamente in dieci collegi, per cui col meccanismo della rinuncia determinano la scelta automatica di altrettanti candidati, scavalcando il gioco delle preferenze, Renzi potrà trovarsi costretto a riaprire la partita. Anche sa va detto che la Corte Costituzionale quando interviene su una legge elettorale, com’è avvenuto con quella precedente all’Italicum, nota come Porcellum, lo fa in modo tale che le parti decapitate non compromettano comunque l’immediata applicazione di ciò che resta.

Infatti, se Renzi dovesse perdere il referendum d’autunno e rimanesse perciò in vigore l’attuale sistema bicamerale, alle elezioni successive, ordinarie o anticipate che fossero, la Camera sarebbe eletta con l’Italicum, in vigore dal prossimo mese di luglio, salvo mutilazioni da parte della Corte Costituzionale, e il Senato sarebbe rinnovato con ciò che del Porcellum è rimasto dopo i tagli apportati dai giudici della Consulta: una legge proporzionale, senza premio di maggioranza, né liste bloccate.

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E’ chiaro tuttavia che in questo caso a Renzi, o a chi dovesse succedergli avendo lui stesso preannunciato il ritiro se sconfitto nel referendum, ma soprattutto al capo dello Stato, che è l’unico a detenere costituzionalmente le chiavi delle elezioni anticipate, si porrebbero ben altri e più complessi problemi. Superiori a quelli che avvertono adesso gli alleati di Renzi, anch’essi interessati a modificare l’Italicum e rasserenati dalla lealtà dimostrata nei loro riguardi dal presidente del Consiglio e segretario del Pd con la sostanziale sconfessione del colpo di mano appena tentato dalla minoranza del partito nella competente commissione del Senato con l’aiuto dei grillini per azzerare le garanzie dei tempi processuali di prescrizione con la sentenza di primo grado. Un tentativo, questo, che ha indotto Angelino Alfano a prenotare comunque un cautelativo “tagliando” della maggioranza all’indomani del referendum costituzionale.

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