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Ecco perché forze speciali italiane sono in Libia

Forze speciali italiane, in una missione congiunta con i servizi segreti esteri, si troverebbero in Libia sia in Tripolitania che in Cirenaica. Questa divisione geografica si porta dietro un enorme peso politico, perché gli italiani in distaccamento a Misurata, e pare anche in una base di Tripoli, a Ovest, sono ospitati dalla più importante delle componenti politico/militari tra quelle che offrono sostegno al governo creato dall’Onu e che sarà guidato da Fayez Serraj, mentre il gruppo che si troverebbe ad Est, vicino a Bengasi, condivide l’acquartieramento con i miliziani di Khalifa Haftar, ossia colui che si sta opponendo con più forza al percorso politico che dovrebbe portare il premier promosso dalle Nazioni Unite alla guida del cosiddetto Governo di accordo nazionale (Gna) e mettere fine alla crisi che da anni squarcia il paese. La notizia è stata nei giorni appena passati riferita da “fonti governative” italiane a Repubblica, ma già a metà aprile era stata pubblicata sul Foglio. Ecco cosa pensano della strategia italiana, analizzata ieri su Formiche.net dal generale Carlo Jean, analisti, esperti e giornalisti.

IL COMMENTO DI GUIDO OLIMPIO

“La frammentazione libica costringe l’Italia a giocare su più tavoli”, dice a Formiche.net Guido Olimpio, inviato a Washington del Corriere della Sera ed esperto di terrorismo internazionale. “Conosciamo bene gli attori e il terreno, ma è probabile che ci aspettassimo sviluppi diversi. Al tempo stesso i nostri interessi strategici (sicurezza, risorse energetiche) ci costringono ad agire evitando troppi danni”, e pensando alla minaccia costruita con la presenza sul territorio libico di tre province dello Stato islamico, che hanno mostrato capacità terroristiche e militari. “Abbiamo usato l’idea di un’operazione militare sotto l’egida Onu per resistere alle pressioni USA che ci chiedevano maggiore impegno nel teatro Iraq/Siria – continua Olimpio – ma poi, al dunque, abbiamo frenato, forse perché ci siamo resi conto che poteva essere una trappola”. La stampa americana ha più volte criticato questi tentennamenti di Roma. “A mio giudizio qualsiasi intervento italiano rischia di catalizzare contro di noi forze diverse, e non solo i jihadisti. Troppo facile per le milizie usare la carta del nostro passato coloniale”.

L’ANALISI DI MATTIA TOALDO

“Nell’Est l’Italia ha una presenza di intelligence protetta militarmente”, dice Mattia Toaldo, analista di punta sulla Libia dell’European Council on Foreign Relations. “È del tutto possibile che l’Italia sostenga Tripoli (inteso come Gna. ndr), mantenendo comunque l’interesse a stare nell’area orientale del Paese anche per controllare da vicino cosa fanno i nostri alleati” come francesi e americani (la presenza dei francesi è stata resa nota dal Monde in febbraioquella degli americani è apparsa sulla stampa pochi giorni fa, attraverso un pezzo del Washington Post). E in effetti anche a Vincenzo Nigro, che ha firmato l’articolo pubblicato il 24 maggio da Repubblica, una fonte del governo italiano dichiarava: “È importante capire cosa fanno tutte le forze militari straniere presenti in Libia, sia per preparare eventuali azioni contro lo Stato Islamico, ma anche per capire quali sono le dinamiche, le alleanze fra milizie libiche e i loro vari sponsor stranieri”.

L’OPINIONE DI PIETRO BATACCHI

“La presenza di forze speciali italiane, sotto catena comando PCM, con Haftar, non mi stupisce, lo sarei stato del contrario”, dice Pietro Batacchi, direttore di RidRivista italiana difesa. La catena PCM, che sta per Presidenza del Consiglio dei Ministri, è quella con cui, attraverso un decreto del 10 febbraio 2016 (approvato e subito secretato), il premier Matteo Renzi “ha avocato al Dipartimento per la sicurezza Dis (coordina i due servizi di intelligence, interno ed esterno, ndr) diretto dall’ambasciatore Giampiero Massolo e, in ultima analisi, a Palazzo Chigi, la responsabilità finale della catena di comando per operazioni di gravi crisi all’estero a cominciare dalla Libia”, come aveva spiegato all’inizio di marzo Gerardo Pelosi sul Sole 24 Ore. “Vero che l’Italia è formalmente impegnata nell’appoggiare Tripoli e Serraj, ma non poteva permettersi di recidere completamente i legami con l’altro campo”, aggiunge Batacchi: “Dal punto di vista strategico è perfettamente logico, e questo a prescindere dai rapporti burrascosi con Abdel Fattah al Sisi, che piano piano miglioreranno”, il riferimento al presidente egiziano è legato al fatto che il Cairo è il principale degli sponsor esterni di Haftar e dei piani federalistici della Cirenaica (l’Italia vive un periodo di crisi delle comunicazione con l’Egitto a causa della vicenda non ancora risolta di Giulio Regeni, lo studente italiano ucciso in circostanze misteriose al Cairo due mesi fa).

LA TESTIMONIANZA DI CRISTIANO TINAZZI

Cristiano Tinazzi, da anni inviato in Libia, sostiene che “potrebbero benissimo esserci osservatori da entrambi i lati, ma credo che la questione sia stata un po’ gonfiata dalla stampa”. Il giorno stesso dell’uscita dell’articolo di Repubblica, in effetti, Naser al-Hasi, portavoce della base aerea di Benina, quella vicino a Bengasi in cui dovrebbero esserci i commandos inviati da Roma coperti dalle nuove garanzie funzionali di intelligence, ha smentito la notizia sulla presenza di militari italiani intervenendo ad Aki-Adnkronos International; in quell’occasione fonti locali specificarono all’agenzia stampa che a Bengasi ormai era rimasto solo un team degli Emirati Arabi, altro sponsor esterno delle Cirenaica, e pure i francesi avevano lasciato la postazione. “L’Italia non può muoversi in modo troppo disinvolto ad est, perché ha forti intese con Misurata e con il neo governo Serraj”, aggiunge Tinazzi. Giovedì il vice di Serraj, Ahmed Maiteeq, il quale nel Consiglio presidenziale che per il momento veicola i passaggi politici del Gna riveste il ruolo di collegamento diplomatico con diversi paesi, in primo l’Italia, era a Roma per partecipare ad un incontro sul futuro della Libia. “D’altronde anche la linea di controllare ciò che fanno gli altri, nel caso i francesi, ha valore relativo. Parigi in Libia ha poca influenza, se non nel settore meridionale che si affaccia sul Sahel, e sta usando Haftar nient’altro che per comodo, cioè per controllare l’espansione dell’Is ed evitare che arrivi proprio nelle aree meridionali”. “Il generale a tutti gli effetti è un cavallo zoppo, che non è spendibile militarmente e politicamente”, dice Tinazzi. Una dimostrazione di questo potrebbero essere le frizioni che sta creando con la missione militare su Derna, denominata Operazione Vulcano, una campagna contro il cosiddetto Consiglio della Shura che guida la città, rappresentato da un raggruppamento di milizie comunque islamiste, ma che hanno avuto il merito di espellere lo Stato islamico dalla cerchia cittadina l’estate scorsa e poi all’inizio di quest’anno dalla piana a sudest. L’assenza di distinzione tra i nemici, considerati tutti terroristi alla stessa stregua “potrebbe aumentare la deriva estremista”.

LE DOMANDE DI GERMANO DOTTORI

“Esprimere un giudizio sull’invio in Libia di un manipolo di uomini delle forze speciali alle dipendenze della Presidenza del Consiglio è obiettivamente difficile”, dice Germano Dottori, docente di Studi strategici presso la Luiss-Guido Carli di Roma, “ne sappiamo troppo poco”. “Alcune fonti parlano di una presenza sui due lati, sostenendo che parte dei commandos si trova a Misurata, mentre altri con le milizie di Haftar. Sono forti però le indiscrezioni secondo cui i nostri incursori sarebbero schierati solo ad est, dove domina l’uomo forte degli egiziani in Libia”. Che cosa dovrebbe fare Palazzo Chigi? “Non sarebbe male che il Governo spiegasse qual è la politica italiana attuale nei confronti della Libia. Perché è in gioco la credibilità del nostro Paese. Ci siamo fortemente esposti in favore di Serraj ed ora risultiamo attivi sul versante opposto, sia pure per rafforzare il fronte anti-jihadista. Non è una bella cosa. Sarebbe importante sapere anche se siamo davanti a Bengasi o piuttosto marciamo su Sirte. Le implicazioni sarebbero rilevanti, giacché nel secondo caso ci troveremmo in rotta di collisione con Misurata e la Turchia”. Ci sono due alternative spiega Dottori: “O non crediamo più che la Libia possa essere riunificata e cerchiamo perciò di essere influenti anche a Tobruk, oppure siamo di fronte ad un nuovo voltafaccia”. E aggiunge: “Temo che siano in molti a chiedersi cosa abbiamo davvero per la testa. Io ho il sospetto che si sia forse fatto un passo azzardato. Che senso ha, infatti, andare ad Est dopo aver negato i peacekeepers a Serraj ed agli americani? Vogliamo contrastare Parigi? In Cirenaica non possiamo competere con i francesi, che condizionano l’Egitto foraggiandone le forze armate. E i nostri veri interessi sono a Tripoli. Non va dimenticato, infine, che sono proprio queste capriole ad accrescere il rischio di attirarci qualche attentato. Speriamo che abbiano calcolato tutto e il Governo sappia cosa sta facendo. In fondo, a volte, siamo fortunati”.


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