Non c’è pace per le quattro banche nate dalle ceneri dei salvataggi della Popolare Etruria, Banca Marche, Cariferrara e Carichieti. Le hanno chiamate le good bank, a sottolineare che dei vecchi istituti è stato preso solo il buono (nella sostanza, i lavoratori, visto che non è stato licenziato nessuno, i conti correnti, i prestiti “sani” erogati a imprese e famiglie). Nelle bad bank, ossia nella banca “cattiva”, invece, è finita innanzi tutto la mole di crediti inesigibili e di sofferenze che è stata proprio alla base del salvataggio. Ma per le good bank le cose non sembrano andare benissimo. O comunque non sembrano andare bene come si sarebbe sperato. Vediamo perché.
FONDI ESTERI
Bisogna ricordare che queste quattro good bank devono essere vendute entro settembre. I compratori, però, sono per lo più fondi di private equity stranieri. Quegli stessi fondi, come già evidenziato da Formiche.net, che per i crediti inesigibili (npl) delle banche italiane propongono meno del 20% del valore originario dei prestiti in questione (contro il 40% circa implicito nei bilanci degli istituti di credito). Per questo motivo era sorto il sospetto che, come offrivano molto poco per gli npl, allo stesso modo avrebbero messo sul piatto poco anche per portarsi a casa le quattro banche buone.
PREZZO BASSO
E in effetti sembra proprio essere così. Ecco quel che hanno scritto Giorgio Meletti e Carlo Di Foggia sul Fatto Quotidiano del 23 maggio: “Il Fondo di risoluzione, cioè la Banca d’Italia, dovrebbe vendere le quattro “new bank” (Etruria, Marche, Ferrara e Chieti) entro il 30 settembre e recuperare almeno gli 1,8 miliardi con cui le ha ricapitalizzate. Ma allo stato delle complicate trattative per la vendita condotte dal presidente Roberto Nicastro, testimonianze convergenti indicano che difficilmente il prezzo di vendita supererà di molto i 700 milioni. Il sistema bancario chiamato a finanziare il Fondo di risoluzione si sta già preparando a perdere almeno un miliardo che nelle previsioni iniziali doveva tornare indietro: circa il 60 per cento del capitale immesso”. Sempre secondo il Fatto, il prezzo finora trattato “è a sconto: anziché alla pari, 1 euro per ogni euro di capitale, cioè 1,8 miliardi, si parla di 0,3-0,4 euro. Tradotto: tra i 600 e i 700 milioni”. Questo significa che il fondo, finanziato dalle maggiori banche italiane (soprattutto le più grandi, cioè Intesa Sanpaolo e Unicredit), rischia di perdere più di 1 miliardo.
LE RAGIONI DELLA SVALUTAZIONE
I motivi di questa svalutazione li spiega ancora il Fatto: nel mirino c’è la bassa redditività dei quattro istituti, che dal 22 novembre hanno perso 4 miliardi di attivi, cioè di capitali presi e prestati. Inoltre, si viaggia verso i 300 milioni e più di perdita complessiva nel 2016. Il quotidiano diretto da Marco Travaglio, a supporto di questa teoria della bassa redditività, cita anche la recente intervista di Nicastro al Corriere della Sera, in cui il banchiere non risponde alla domanda: “È vero che gli acquirenti sono preoccupati dal rapporto cost/income?”, cioè tra costi e utili. Il Fatto aggiunge poi che si pone un nuovo problema di sofferenze: “Il 22 novembre erano state valutate al 17,6 per cento del valore nominale delle posizioni, per cui 8,5 miliardi di crediti sono passati alla bad bank per 1,5 miliardi. Poi, dopo mesi, quella valutazione palesemente punitiva è stata rivista al rialzo, al 22,3 per cento del valore nominale, generando così un maggior credito di 400 milioni verso la bad bank”. Il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha però già spiegato che questi 400 milioni di nuovo capitale emerso andranno giusto a coprire nuove perdite sulle sofferenze emerse nel frattempo.
LE RASSICURAZIONI
Da ricordare che la scadenza per la vendita delle good bank è stata prorogata alla fine di settembre proprio a causa delle difficoltà che si stanno incontrando nell’operazione di cessione. Nei giorni scorsi Nicastro, in una nota, ha voluto sottolineare che, “in caso di mancata vendita delle quattro good bank entro la fine di settembre non scatterebbe automaticamente una procedura di bail in”. Vale a dire una procedura simile a quella a cui le quattro banche sono già state sottoposte proprio lo scorso novembre (le regole sul bail in, ossia i salvataggi bancari dall’interno, sono poi entrate in vigore da noi a gennaio).