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Ecco le 5 accuse di Ignazio Visco all’Europa su banche e titoli di Stato

Buona parte delle considerazioni finali lette da Ignazio Visco sono dedicate alle banche ed è giusto così, perché la crisi bancaria è il cuore della crisi italiana. Certo c’è il debito pubblico. C’è la caduta di produttività. C’è la perdita di capacità produttiva. Ma le banche restano l’alfa e l’omega. E dopo aver letto e ascoltato le parole del governatore della Banca d’Italia, la preoccupazione anziché diminuire aumenta.

La crisi bancaria è a sua volta figlia della lunga recessione che ha fatto esplodere i prestiti deteriorati il cui valore “è di poco inferiore ai 200 miliardi”. Ma non solo. Ci sono dietro i comportamenti dei banchieri. In particolare le banche popolari hanno rivelato “scarsa trasparenza nelle decisioni degli amministratori, l’autoreferenzialità di alcune figure di vertice, la resistenza al cambiamento”. E non basta. “La redditività dei principali gruppi bancari italiani rimane inferiore a quella delle banche europee”, documenta la Relazione generale. L’utilizzo delle tecnologie è ancora basso (siamo al posto 23 nell’e-banking), gli sportelli sono ancora troppi (30 mila) anche se invia di riduzione. La presenza sul territorio va riorganizzata. E ci saranno inevitabili tagli del personale.

Il sistema bancario si trova nello stesso tempo a dover aumentare il capitale e ridurre il peso dei crediti deteriorati, ma non esiste un meccanismo di carattere più generale che possa affrontare una volta per tutte la situazione. In questa situazione, l’Unione europea ha lasciato sola l’Italia, in più è stata “pressoché annullata la possibilità di usare risorse pubbliche nazionali o comuni”.

Qui l’accusa di Visco alla Ue è netta e circostanziata.

1) “La posizione assunta dalla Commissione europea in materia di aiuti di Stato esclude l’utilizzo degli schemi di assicurazione dei depositi sebbene siano di natura privata”. Secondo il governatore (e qui fa appello alla dottrina) “non vi è motivo per considerare come impropri aiuti di Stato iniziative che contribuiscono a correggere fallimenti del mercato senza ledere la concorrenza”.

2) “Una interpretazione rigida, poco attenta alla stabilità finanziaria ha anche ostacolato l’ipotesi di istituire una società per la gestione dei crediti deteriorati delle banche italiane”.

3) Il bail-in è stato introdotto senza tener conto della situazione italiana. “Diversamente da quanto proposto dalla delegazione italiana nelle sedi ufficiali non è stato previsto un sufficiente periodo transitorio che consentisse a tutti i soggetti coinvolti fi acquisire piena consapevolezza del nuovo regime, né si è esclusa l’applicazione delle norme agli strumenti di debito già collocati anche al dettaglio”.

4) L’Unione bancaria si è risolta in un boomerang, perché “deve essere completata con gli elementi previsti nel disegno originario. Il fondo unico di risoluzione è stato costituito, ma i contributi versati dalle banche inizialmente suddivisi in comparti nazionali, verranno messi in comune in tempi lunghi: non traspare una chiara determinazione a farne effettivamente uso. Il sistema europeo di garanzia dei depositi non è ancora stato definito”.

5) I requisiti prudenziali vanno affrontati “senza posizioni preconcette… l’esperienza insegna che transizioni originariamente pensate come graduali spesso finiscono per subire repentine accelerazioni imposte dal mercato”.

Emerge, insomma, il quadro di una sconfitta su tutti i campi. I negoziatori italiani non solo non hanno ottenuto pressoché nulla, ma sono finiti in trappola. Sì, perché la cosiddetta unione bancaria così com’è, senza fondo di risoluzione e garanzia europea dei depositi è un maledetto imbroglio.

Il governo italiano, il parlamento, la Banca d’Italia, la vigilanza, il sistema bancario nel suo complesso, gli stessi risparmiatori che hanno chiuso gli occhi quando sembrava che le cose andassero bene, nessuno è esente da responsabilità, anche se vanno attentamente graduate per non fare polveroni. Ma la denuncia di Visco dovrebbe portare anche a qualche conclusione concreta.

Che fare? Restare a bagnomaria? Farsi cuocere a fuoco lento? Attendere la prossima tempesta finanziaria e alzare bandiera bianca? Vendere a tedeschi e francesi le banche italiane (quelle appetibili perché le altre nessuno le vuole)? O far saltare il banco e denunciare una unione bancaria fittizia, usata come strumento discriminatorio, come mezzo per una vera e propria concorrenza sleale? Perché mettere le banche italiane alla mercé delle autorità europee se poi le crisi vanno affrontate su base nazionale, ma con le regole degli altri?

Sono domande allarmanti che implicano risposte forti, risposte politiche che non spettano solo alla Banca d’Italia, ma al Tesoro e al governo. Né Renzi né Padoan hanno intenzione di ingaggiare un braccio di ferro proprio adesso che hanno incassato la flessibilità. Eppure, risolvere la crisi bancaria è più importante persino di una riduzione delle imposte (a meno che non sia davvero significativa e strutturale).

A questo punto sorge anche un dubbio. Il governo si è concentrato in questi due anni nel braccio di ferro per ottenere qualche decimale di punto nel bilancio pubblico, così facendo ha lasciato in secondo piano la questione bancaria e non s’è accorto del trappolone in cui si andava a cacciare. E’ una interpretazione malevola? A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. O no?

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