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Vi racconto la propaganda di Isis in Libia

Lo Stato islamico in Libia è in una fase di intensa attività mediatica e propagandistica, abbinata a regressioni territoriali, che rischiano di portarsi dietro come conseguenza la riapertura dello scontro aperto tra Est e Ovest.

I MESSAGGI PROPAGANDISTICI

Escono giornalmente foto e video di varia qualità realizzativa che lanciano fondamentalmente un messaggio ai fedeli: fate la hijra in Libia (il termine affonda le radici storiche al 622, quando Maometto viaggiò con i primi devoti dalla Mecca a Medina). È una chiamata alle armi, perché sottintende che chi arriva a Sirte e dintorni prenda parte alle battaglie. Assieme a questo, i media-branch del Califfo mandano in loop la chiamata a colpire le città europee (Roma occupa un ruolo di primo piano, e i suoi simboli sono continuamente richiamati): dopo l’ultimo audio del portavoce Abu Mohammed al Adnani di due settimane fa, la richiesta ai fedeli torna a essere quella di muoversi senza il bisogno di impiantare cellule o organizzazione, fate da soli, colpite come potete con ciò che avete (esempio: in una di queste immagini c’è un ragazzo armato di un semplice coltello che si aggira per le vie di una città, un richiamo anche alla “Knife intifada” vista nei mesi passati in Israele).

L’IS PERDE TERRITORIO

Tutto questo impasto mediatico serve anche a nascondere le difficoltà che l’Is sta vivendo sul campo; il Califfato vive di proselitismo, e dunque di propaganda, e nessuno è attratto da una realtà perdente. Le forze di Misurata, che è il raggruppamento di milizie più forte al fianco del futuro presidente libico protetto dall’Onu Fayez Serraj, si sono dirette da ovest verso Sirte, la roccaforte del Califfo in Libia, e hanno conquistato terreno. Questa cavalcata è stata sostenuta da ovest dalle milizie del petrolio, le Pfg, guidate da Ibrahim Jadhran, anche queste (abbastanza) fedeli a Serraj. I libici hanno accerchiato lo Stato islamico dimezzandone le aree controllate e tagliato ogni linea di comunicazione, ma per il momento non è chiaro se riusciranno a entrare in città: intanto si trovano fermi attorno a Sirte, e ogni tanto subiscono qualche attacco suicida dell’Is, ma sono molto più organizzati e forti di quando questa campagna iniziò con un azione d’anticipo dei baghdadisti con la quale riuscirono addirittura a sottrarre terreno ai misuratini. Era solo metà aprile. Adesso, secondo speculazioni da fonti che non è possibile confermare, questo rinnovato spirito combattivo potrebbe anche essere dovuto al supporto tattico/logistico di alcune forze speciali occidentali, clandestinamente embedded con le milizie di Misurata: dieci giorni fa un comandante libico ha raccontato al Times che commandos inglesi hanno aiutato i suoi uomini a fermare un attentato di un camion bomba. Ufficialmente tutti i governi sospettati per questo genere di operazioni (Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Italia) negano ogni coinvolgimento diretto e si limitano a dichiarare che sull’area ci sono solo osservazioni di intelligence.

IL FUTURO DELL’IS IN LIBIA

Lo Stato islamico messo alle strette in questo momento non è una novità: l’Is soffre in Libia come in Iraq e anche in Siria. È una specie di crollo della dimensione statuale, ossia quella che vedeva il gruppo controllare, amministrare, in una parola governare, ampie fette di territorio. Resta operativa, e anzi forse più pericolosa la dimensione terroristica, che potrebbe ricevere spinte ulteriori (e in parte questo sta già accadendo in Siria e Iraq) proprio per bilanciare le sconfitte, e continuare a spingere la narrativa. Il ricercatore Marco Arnaboldi prospetta su Twitter un duplice scenario per l’Is in Libia: o torna alla fase-Sabratha, la città occidentale in cui per diversi mesi gli uomini dello Stato islamico sono rimasti ovattati, lavorando clandestinamente e con politiche di soft power mentre organizzavano i due grandi attentati in Tunisia, al Bardo e alla spiaggia di Sousse (il vaso di Pandora è stato poi scoperchiato da una pesante bombardamento americano contro uno dei leader locali, responsabile degli attacchi tunisini, che ha aperto la strada per le operazioni di rastrellamento delle milizie cittadine); oppure si disperderà nel Fezzan diventando qualcosa di simile alla provincia del Sinai. Questa seconda è una possibilità interessante e preoccupante, perché l’Is, che in quelle aree è già presente con una Wilayat (provincia), dunque ha avuto entrate nella popolazione tribale locale, diventerebbe un corpaccione di cani sciolti immersi tra le piste del contrabbando del Sahel, in contiguità con altri gruppi radicali islamici (tra cui qaedisti) che bazzicano l’area, e più vicino ai collegamenti con la provincia nigeriana dello Stato islamico.

IL RISCHIO DELLA RIAPERTURA DEGLI SCONTRI INTRA-LIBICI

Se questo è un quadro inquietante, che poco può far sorridere chi pensa che una volta scacciato da Sirte (anche se l’operazione non si sa quando arriverà) il problema sia risolto, c’è una prospettiva ancora peggiore. Lo Stato islamico debole (e a quanto pare anche coinvolto in regolamenti di conti interni, soprattutto tra chi è libico e chi è venuto da fuori, segno che la hijra tanto chiamata finora non ha funzionato come amalgama) fa venir meno la principale preoccupazione che grava sulla crisi libica; preoccupazione che interessa più che altro i governi occidentali e molto meno i libici. Il vero punto di interesse sta diventando Bengasi e non Sirte, e questo significa che resta, torna, è di primo piano la lotta intra-libica e non quella al Califfo. Giovedì il gran Mufti Al Sadiq Al Gharyani ha ricordato in televisione che è vero che la lotta agli estremisti è importante e l’Is è “un gruppo oppressore che abusa dell’Islam”, ma la vera battaglia è quella di Bengasi, dove occorre che i fedeli diano sostegno ai rivoluzionari. Nella città della Cirenaica il generale Khalifa Haftar, uomo forte del governo di Tobruk e dell’Egitto anti-terroristico dei militari, sta combattendo contro il Consiglio della shura dei rivoluzionari di Bengasi (BSCR), un gruppo di milizie islamiste a cui alcune fazioni interne allo scatolone-Misurata sono vicine e forniscono supporto logistico e ideologico (tempo fa tre barche piene di armi furono distrutte al porto cittadino prima di scaricare, pare che erano state mandate da Ovest). È questa la “vera battaglia” per il futuro della Libia, dice il mufti, quella tra Est e Ovest. Nello stesso giorno quelli del BSCR hanno annunciato l’inizio di un’ampia operazione difensiva, rinominandosi Saraya Benghazi Brigades. Il rischio è che se cade Sirte viene meno quella specie di cuscinetto che divideva l’Est e l’Ovest libico, su cui l’attenzione internazionale per la minaccia del Califfato aveva fatto da bilanciamento tra le due fazioni libiche: senza Is quel bilanciamento esterno potrebbe venir meno e riaprirsi una nuova stagione di scontri tra le due macro-regioni. In tutto questo il premier Serraj pare avere poco ascendente e poca forza per poterne veicolare le dinamiche: il futuro premier ha detto alla Reuters, nella sua seconda intervista rilasciata questa settimana (segno che ha bisogno di comunicare sicurezza), che il Califfato sta per essere sconfitto, ma il problema è capire se si passerà a un male peggiore.

(Foto: Twitter, un’immagine di una campagna propagandistica dell’Is in Libia)

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