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La Falluja liberata

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Fallujah, “la città dalle cento moschee” a una cinquantina di chilometri a ovest della capitale irachena Baghdad, è stata liberata dall’occupazione sharitico-militarista dello Stato islamico. Sono gli iracheni, che hanno portato avanti l’offensiva con esercito regolare, truppe speciali e milizie sciite, ad annunciare la fine della battaglia. “It’s over”, anche l’ultimo quartiere (al Golan) è stato riconquistato, 1800 miliziani baghdadisti sono rimasti uccisi: la Cnn riporta l’annuncio televisivo del generale Abdul Wahab al-Saadi, che ha comandato le operazioni, ma la rete all news americana specifica di non poter indipendentemente verificare la veridicità di certe affermazioni. Ci sono dei precedenti, non è questione di mancanza di rispetto dei giornalisti statunitensi nei confronti degli ufficiali alleati, perché non è la prima volta che gli iracheni sopravvalutano le proprie conquiste. E questo per dirlo in buona fede: in cattiva, si direbbe che spesso il governo di Baghdad (e le sue emanazioni operative, ivi compresi i partiti/milizia combattenti) usa dichiarazioni sensazionalistiche per pura propaganda. Riconquiste improbabili, progressi mai avvenuti, fantomatiche uccisioni di leader baghdadisti (chi scrive ha ufficialmente perso il conto di quante volte Khalifa Ibrahim, come i sudditi chiamano Abu Bakr al Baghdadi, è stato dichiarato ucciso o ferito: difficile aggiornare la contabilità con chiame che arrivano a cadenza ancora più fitta in questo momento in cui l’Is sembra effettivamente in contrazione su diversi fronti).

LA CONQUISTA BAGHDADISTA

L’organizzazione della campagna per riprendere Falluja è nella mente del governo iracheno da circa due anni, ossia da quando gli uomini dell’Isis entrarono in città, la conquistarono in quattro giorni, sconfiggendo un esercito moscio (nonostante gli armamenti americani) e sfruttando una popolazione compiacente. A Falluja la storia del gruppo estremista trova aggrappi ancestrali: nell’ultima città orientale dell’Anbar, la grande provincia sunnita che dal confine siro-giordano dell’Iraq arriva a pochi chilometri da Baghdad, la predicazione – o forse solo il semplice ascolto della popolazione – dei movimenti integralisti sunniti hanno trovato un facile bacino culturale. C’era il settarismo da parte del governo sciita esclusivista di Nouri al Maliki: i miliziani jihadisti hanno sfruttato un background culturale che nasceva dai tempi dell’occupazione americana post-2003 sotto forma di rivoluzione e guerra di liberazione (condotta dall’ideologo dell’attuale Stato islamico Abu Musab al Zarkawi che nelle strade cittadine scatenò le due battaglia più sanguinose di quella guerra), poi naturalmente coltivato da quelle politiche settarie del governo-Maliki messo in carica dagli stessi Stati Uniti.

LA RICONQUISTA

La campagna di riconquista è durata soltanto cinque settimane, con scatti di avanzata rapidi. Quello iniziale, con l’arrivo dei corpi governativi che hanno iniziato la propria cavalcata, poi il rallentamento con i primi scontri urbani (a cui i soldati iracheni, nonostante tutto l’addestramento ricevuto dagli occidentali, sono puntualmente impreparati), poi quello che sembra essere stato il conclusivo, arrivato nel fine settimana appena trascorso. Baghdad ha lanciato verso la città i corpi migliori, ma anche i raggruppamenti più ideologici delle milizie, senza delle quali poco potrebbe in termini di forze e di numeri.

IL PROBLEMA DEI MILIZIANI SCIITI

Gli Usa però non vogliono che i miliziani sciiti restino nell’area: sono stati tenuti accuratamente fuori dalla cerchia abitativa, ma alla fine si sono lo stesso rivelati capaci di prendersi azioni denunciate dalle organizzazioni internazionali; tra queste, il becero trattamento su coloro che scappavano fuggendo dal fuoco della battaglia, le ritorsioni nei confronti di collaborazioni califfali, passati sotto il giudizio sommario dell’enfasi della riconquista. Washington sa che il rischio settarismo è altissimo: lo Stato islamico ha aperto un fronte all’interno delle due confessioni islamiche, che ha portato a vicendevoli dichiarazioni di apostasia e condanne a morte, e il rischio, adesso, è la vendetta degli sciiti, i commilitoni, i parenti, i vicini anche soltanto culturalmente, per esempio delle centinaia di cadetti giustiziati dai leader baghdadisti a Camp Speicher, vicino Tikrit; morti decise soltanto per la colpa di pregare Allah in un altro modo.

GLI INTERROGATIVI SULLA RICONQUISTA

Ora chi governerà Falluja? A chi gli americani, che hanno appoggiato dall’alto (e probabilmente anche con qualche direttiva da terra) l’offensiva, lasceranno il controllo? Gli Stati Uniti, è noto, avrebbero preferito concentrarsi su Mosul, roccaforte irachena dei baghdadisti, teatro dell’unica apparizione pubblica del Baghdadi, quando dalla grande moschea dichiarò Baghdad la fondazione del Califfato (l’anniversario biennale cade domani), ma poi le esigenze del governo iracheno hanno spostato l’obiettivo su Falluja, perché è da lì che parte il grosso degli attentatori suicidi che massacrano gli sciiti nella capitale. Ora i politici iracheni saranno in grado di garantire un equilibrio? I partiti/milizia che hanno sostenuto la campagna utilizzando armi, soldi, logistica, storicamente provenienti dall’Iran, faranno un passo indietro? Sarà capace la polizia federale, il corpo che gode da anni del training occidentale (anche italiano) e che ha issato la bandiera nazionale sull’edificio comunale qualche giorno fa, di provvedere laicamente alla sicurezza e permettere l’insediamento di un’amministrazione?

IL FUTURO DELLA GENTE DI FALLUJA

Domande da mettere in fila, oltre a capire se effettivamente la cittadina è stata liberata, oppure come successe nel capoluogo dell’Anbar Ramadi ci sono ancora sacche di resistenza che renderanno ogni passo dei governativi un incubo, tra trappole esplosive e cecchini che sparano in attesa del martirio. Ci sono stati danni: edifici distrutti, case bruciate dagli stessi baghdadisti come tattica difensiva, la riconquista non è stata certo chirurgica. Ora servirà ridare una casa a quei profughi (85mila dicono i numeri dei media internazionali) che per il momento si trovano in campi costruiti in fretta, carenti di servizi primari – luoghi in cui non sono mancate le rappresaglie dei miliziani sciiti – e un sistema politico-amministrativo inclusivo, in grado di evitare che con la ricostruzione edilizia risorgano anche le istanze radicalizzate.

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