E alla fine Brexit fuit. Ma quante se ne sono sentite, prima e dopo. I media (non sono quelli italiani) si sono lanciati in un vero e proprio carosello di luoghi comuni salvo poi essere smentiti dalla realtà. Eccone alcuni, raccolti un po’ per celia un po’ per ragionar.
Gli inglesi sono pragmatici. Chi non credeva alla Brexit, ripeteva il vecchio adagio che ha lo stesso valore di quelli che si raccontano sui rigidi tedeschi e sugli italiani casinisti. Fuori e dentro le cabine elettorali abbiamo visto tutto tranne che il pragmatismo. La millenaria storia delle isole britanniche lo aveva già dimostrato (per non parlare del secolo scorso), adesso la cronaca ci offre la riprova. Gli effetti pratici non hanno contato affatto su chi voleva uscire. Gli economisti stimano che ogni cittadino perderà almeno mille sterline l’anno, ma gli economisti sbagliano sempre e il popolo li detesta. Hanno agito pulsioni e ragionamenti del tutto diversi legati all’identità, alla nazionalità, all’esclusione sociale, alla xenofobia, all’ideologia, al sovranismo e altro ancora, ma certo non con al primato della praxis.
Gli inglesi sono arbitri del proprio destino. Davvero? Da un secolo a questa parte la loro sopravvivenza (altro che sovranità) dipende dagli americani. Si sono fatti trovare impreparati in due conflitti mondiali. La più grande fabbrica di automobili oggi è l’americana Ford. La piazza finanziaria di Londra è così importante non per la sterlina, ma perché è la dépendance di Wall Street. L’esercito è integrato nella Nato dalla quale dipende la sicurezza del paese. Dopo la sciagurata crisi di Suez del 1956 l’unico passo non gradito a Washington è stato il conflitto delle Falkland/Malvinas (e anche in quel caso, alla fine Ronald Reagan chiuse un occhio). Acqua passata? Non proprio se il segretario di Stato John Kerry è volato in gran fretta in Europa per dire a Cameron di prendere tempo e raccomandare “calma e gesso” alla triade Merkel, Renzi, Hollande. Certo, oggi Washington è in fibrillazione elettorale. Ma possiamo scommettere che se vince Hillary ci sarà un tentativo di ricucire. E se vince Trump? Anche sia pure con filo rosso carota come il suo parrucchino.
Il popolo ha sempre ragione. Davvero? Senza ricordare le “volontà popolari” che hanno violato i diritti fondamentali e i valori dell’uomo provocando catastrofi, senza citare il solito esempio dell’islamismo radicale, senza lanciarci in ardite distinzioni tra democrazia e demagogia, da Aristotele a Todorov passando per Aron, sembra proprio che il popolo inglese “si sia sparato sugli alluci”. Oggi c’è voglia di ripensamento, persino tra alcuni promotori del Brexit, ma rimettere insieme i cocci non è più nelle mani degli inglesi.
Le élite sono state punite. Quando succede può essere salutare e bisogna ragionarci su senza paraocchi. Eppure, subito dopo sono sempre i punitori a chiedere alle stesse élite di agire subito, prendere in mano il timore, avere coraggio. Sta accadendo anche adesso. Il popolo ha votato, ma sono i governi a dover negoziare. E proprio i populisti più di ogni altro chiedono decisionismo. Non è un paradosso se si pensa a quello che lo storico Emilio Gentile nel suo libro “Il capo e la folla”, chiama “la democrazia recitativa”.
Il sistema britannico garantisce governabilità. “Siamo in piena anarchia”, scrive l’Economist. I partiti sono divisi, i laburisti in rivolta, i conservatori vorrebbero impiccare Cameron se ancora fosse possibile, Boris Johnson ha cavalcato la tigre per diventare primo ministro, ma adesso sente su di sé il marchio del traditore e la maggioranza dei parlamentari conservatori non lo vuole. Poi ci sono gli scozzesi che agitano la secessione, lo Sinn Fein che vuole unirsi alla repubblica d’Irlanda. E lo stesso Cameron che non vuole negoziare il distacco, getta la patata bollente nelle mani del successore che non arriverà prima di ottobre. Poi c’è chi chiede un altro referendum e nessuno sa se è legale. Girano cifre pazze su fantomatiche firme raccolte. Altro che Italia, Grecia o Spagna. I britannici sono in confusione non solo mentale, ma costituzionale.
La globalizzazione ci toglie posti di lavoro. Può essere vero in molti (troppi) casi in Occidente. Ma colpisce sentirlo dire nel Sunderland dagli operai che hanno votato Leave e lavorano in una fabbrica della Honda.
Il panico dei mercati. Brexit è stata una bella botta soprattutto alla sterlina. Nessuno può escludere che s’inneschi il panico che come si sa è il male oscuro della finanza, ma finora Brexit non è una nuova Lehman. Per una serie di ragioni, tra le quali la grande liquidità già iniettata dalle banche centrali. Ma anche perché i mercati stanno reagendo in modo razionale: Londra da sola vale meno che Londra nella Ue sia pure a modo suo. Gli scozzesi e gli irlandesi (più realisti e più poveri) lo sanno, gli inglesi dovranno farsene una ragione.
Adesso può nascere una nuova Unione europea. Può darsi, ma quale? Quella del nocciolo duro, la Kerneuropa di Schäuble, quella dei paesi fondatori come rilancia Giscard d’Estaing, quella federale come traspare dalla pur cauta intervista del presidente Mattarella alla Stampa, quella confederale, che emargina la commissione e riporta il volante in mano ai governi, come si è visto con il vertice di Berlino? O quella delle geometrie così variabili da poter in qualche modo riagganciare anche la Gran Bretagna, come sostengono molti diplomatici, anche alla Farnesina? Ci sono tante “nuove Europe” per lo più in conflitto tra loro.
L’elenco può essere allungato a piacere. Ma per farla breve anche la Brexit ci dimostra una cosa molto semplice: meglio guardare alla realtà usando il buon senso e non il senso comune.