Il conservatore David Cameron ed il laburista Jeremy Corbyn osservano smarriti e sgomenti i loro partiti disfarsi sotto i colpi della tempesta Brexit. Improvvisamente hanno scoperto di essere politicamente nudi, incapaci di governare i gruppi parlamentari e domare i dirigenti ribelli che apertamente li accusano di non saper gestire la crisi politica più grave del dopoguerra nel Regno Unito. Il primo ha commesso un errore di valutazione imperdonabile, degno di un dilettante, portando al referendum un Paese squassato da venti di secessione e da disuguaglianze crescenti che hanno alimentato la protesta contro un’Europa mai amata e tuttavia per necessità sopportata. Il secondo si è proposto come campione di indecisionismo e di ambiguità al punto che non s’è mai capito bene se voleva davvero restare nell’Unione o uscirne con valide ragioni.
I laburisti, nel corso di un decennio, dopo la fine dell’èra Blair, hanno visto cadere uno dopo l’altro leader presunti ed effettivi, da Gordon Brown ai fratelli Ed e David Miliband. La scelta di affidarsi a Corbyn, vecchio marxista che con il New Labour non c’entra proprio niente, ai suoi sostenitori è sembrata una necessità e a lui si sono attaccati per non affogare del tutto. Hanno commesso un errore clamoroso.
I conservatori, pur conquistando alle ultime elezioni l’autosufficienza parlamentare che ha consentito a Cameron di ricacciare nel limbo l’alleato liberal-democratico Nick Clegg, vice-primo ministro fino a maggio dello scorso anno, poi travolto dal tracollo elettorale del suo partito, non sono riusciti ad incidere nelle politiche sociali che i britannici chiedevano, in particolare una maggiore tutela del welfare, e a sostenere il peso delle imposizioni di Bruxelles minando l’orgogliosa autonomia nazionale irrinunciabile per i tories.
Insomma, se Cameron, date anche le circostanze, non è stato capace di fare il conservatore, nel senso di legare il destini del suo Paese a quelli dell’Europa con l’equilibrio che ci si attendeva, Corbyn ha deluso come socialista ed europeista di fronte ad un elettorato che immaginava di poter condizionare il primo ministro minacciando sfracelli in stile anni Settanta, quelli che con pugno di ferro riuscì a domare Margareth Thatcher. Entrambi sono responsabili dell’equivoco che ha portato la Gran Bretagna fuori dall’Unione europea, senza volerlo, il che è più grave che se avessero operato per una uscita senza tentennamenti ed equivoci. Paradossalmente non hanno fatto un favore a Nigel Farage il cui Ukip, ritrovandosi senza rappresentati in Europa e con un solo deputato alla Camera dei Comuni, è votato all’irrilevanza dal momento che tanto gli elettori conservatori quanto quelli laburisti hanno avvertito il pericolo insito nell’avventurismo unilaterale dell’abbandono dell’Unione e non sono disponibili a mettersi nelle mani del leader indipendentista. Ciò non vuol dire che la diffidenza e perfino l’ostilità della maggioranza dei britannici nei confronti dell’Europa comunitaria sia finita. Anzi, per certi versi rimane integra. Ma sono affiorati gli inevitabili interrogativi sul “dopo” e non sembra che Cameron o Corbyn abbiano dato risposte rassicuranti. Da Farage inutile attendersele. Il leader dell’Ukip avrebbe dovuto presentare una piattaforma sostenibile dopo l’uscita, non l’ha fatto perché non ce l’ha, come nessuno può avercela visti gli stringenti parametri che condizionano l’adesione di un Paese all’Unione ed il Trattato di Lisbona, se all’articolo 50 ammette l’abbandono, non prevede poi alcuna salvaguardia per chi se ne assume la responsabilità.
Possibile, ci si chiede, che Cameron non immaginava al momento della promessa di indire il referendum, per meri motivi di saccheggio elettorale, che l’esito sarebbe stato comunque devastante per lui stesso ed il suo partito? Possibile che Corbyn non avesse messo in conto che la parte più consistente dei laburisti e quasi tutti i suoi parlamentari sarebbero stati contrari all’uscita? Entrambi hanno giocato sugli equivoci, sulle mezze verità che sono poi mezze menzogne; hanno dimostrato di non essere leader all’altezza dell’impopolarità. Cameron non è stato mai un europeista convinto in linea, almeno in questo, con la tradizione dei tories; Corbyn non poteva esserlo perché le politiche di austerità non rientrano nell’ideologia d’antan del suo partito. Hanno giocato sugli umori e sui disagi della gente e sono caduti. Più rovinosa la fine di Cameron, comunque, dal momento che aveva in mano da un anno il governo britannico ed avrebbe potuto, sia pure con ristretti margini di manovra, ottenere quanto più possibile per il suo Paese dall’Europa, magari mettendosi alla testa di coloro che intendono riformare le istituzioni continentali creando a tal fine un vero fronte conservatore al di là dei velleitarismi di chi immagina che la sovranità agli Stati possa essere restituita con i colpi di mano.
Se il “sovranismo”, tema fondamentale delle politiche conservatrici in ogni dove, poteva avere qualche possibilità di diffondersi ed attecchire, contrastando le tendenze iperliberiste e sostanzialmente antinazionali di una certa sinistra sempre più prossima ai “poteri forti” rappresentati dagli oligarchi di Bruxelles e di Francoforte, si è dissolto di un giorno d’estate quando, a risultato acquisito, la paura del domani ha fatto breccia non solo nel Regno Unito, ma anche nel resto dell’Europa.
Ovunque si respira un’aria malsana: i popoli non sono pronti ad agire come se la vittoria fosse a portata di mano. La Brexit, insomma, è stata un’illusione. E forse ha allontanato la realizzazione del sogno di un’Europa nazione nella forma di Confederazione di Stati nella quale le identità, le culture, le storie, le sensibilità continentali potrebbero trovare spazio e rispetto; valori garantiti da istituzioni realmente democratiche, rispondenti alle esigenze di popoli antichi, diversi eppure vicini.