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Mps, Unicredit e le banche italiane. Cosa chiedono Renzi e Padoan a Bruxelles

Di Fernando Pineda e Federico Fornaro

Mentre l’Italia viene sconfitta ai rigori dalla Germania agli Europei di pallone, il governo di Matteo Renzi resta in partita sulle banche e continua a battagliare con la Commissione Ue e soprattutto con la cancelliera tedesca Angela Merkel. L’obiettivo del nostro premier è dei più ambiziosi: cercare di spuntare la ricapitalizzazione delle banche italiane, ormai evidentemente necessaria, nella cornice delle regole europee e facendo valere l’eccezionalità del momento causata dalla Brexit (la recente decisione del Regno Unito di lasciare l’Unione Europea). In primo piano c’è il Monte dei Paschi di Siena. Ma andiamo con ordine partendo dalle ultime novità ufficiali che sono arrivate negli scorsi giorni da Bruxelles.

COSA E’ GIA’ STATO OTTENUTO

In realtà, un punto dall’Italia è già stato portato a casa. Si tratta di quello sullo scudo pubblico da 150 miliardi di euro a sostegno delle banche approvato la scorsa settimana dalla Commissione europea. Inizialmente scambiato per un intervento diretto nel capitale, lo scudo si è ben presto rivelato “soltanto” un sostegno alla liquidità, come sottolineato su Formiche.net da Guido Salerno Aletta e dunque per molti versi inutile, come ha commentato anche da Giuseppe Sersale, strategist di Anthilia Capital Partners Sgr, “le banche sono zeppe di liquidità, e dispongono di ampio collaterale con il quale ottenerne altra in ECB attraverso le normali facilities”. In pratica, quei 150 miliardi fungono da garanzia statale sulle obbligazioni che le banche italiane portano alla Banca centrale europea come collaterale (cioè in garanzia) quando chiedono in prestito della liquidità. Alberto D’Argenio, il 2 luglio su Repubblica, ha spiegato come sia stato possibile ottenere questo risultato nell’ambito delle leggi esistenti: “Quando la Brexit ha terremotato i mercati, il governo ha accelerato i negoziati con Bruxelles. E con la sponda di Hollande (il presidente francese, ndr), che Renzi ha incontrato sabato a Parigi, domenica scorsa ha ottenuto un via libera “politico” dalla Commissione alla deroga al divieto di aiuti di Stato per le banche previsti dalla direttiva sul bail-in, la norma che dal 2016 vieta i salvataggi pubblici e che ha costretto l’Italia a scaricare sugli obbligazionisti parte delle perdite delle 4 banche fallite a gennaio. La norma che permette l’aiuto pubblico evitando il crack è contenuta nella stessa direttiva sul bail-in, all’articolo 32.4: in caso di eventi straordinari che mettono a rischio il sistema, come la Brexit, alla lettera “ii” prevede che lo Stato possa intervenire con garanzie pubbliche per garantire liquidità alle banche. La lettera “iii”, invece, prevede iniezioni necessarie per far fronte alle carenze di capitale”.

IL VERO PROBLEMA

E proprio qui si va al cuore della questione, perché oggi il problema degli istituti di credito di casa nostra non è tanto la carenza di liquidità, anche perché è la stessa Bce che rifornisce periodicamente le banche con le sue aste a prezzi stracciati, quanto piuttosto la debolezza della struttura patrimoniale. Una debolezza a sua volta connessa indissolubilmente al nodo centrale dei crediti deteriorati che, con la loro sopravvalutazione nei bilanci degli istituti rispetto al loro valore di mercato, zavorrano i conti delle banche. Stando alle ultime notizie, il governo Renzi è ancora al lavoro per cercare di spuntare una garanzia pubblica alle ricapitalizzazioni. Perché farlo sia così importante lo spiega Giovanni Pons su Repubblica del 3 luglio: in questo momento lanciare sul mercato un aumento di capitale senza una garanzia pubblica avrebbe effetti devastanti sui corsi di Borsa e per gli attuali azionisti. Scrive Pons: “Prendiamo il caso di Unicredit: in Borsa è arrivata a valere 11,6 miliardi; se il nuovo ad Jean-Pierre Mustier decidesse di lanciare un aumento di 7-8 miliardi, come da calcoli di alcuni analisti, il titolo crollerebbe ulteriormente e alla fine il vecchio capitale con i suoi soci verrebbe spazzato via completamente. Il Banco Popolare, tanto per fare un altro esempio, ha appena raccolto un miliardo attraverso un aumento di capitale, ma da quando l’ha annunciato ne ha persi 1,5 in Borsa”. Da qui l’urgenza di ottenere una garanzia sulle ricapitalizzazioni.

L’OPZIONE GRECA

Qualche spiraglio, nell’estenuante trattativa con l’Europa, sembra esserci. “Siamo in contatto con le autorità italiane sulla questione delle banche e, sulla base dei precedenti, ci sono una serie di soluzioni che possono essere messe in atto nel pieno rispetto delle regole Ue – diceva sabato sera un portavoce della Commissione – e questo affrontando le carenze di liquidità e di capitale nelle banche senza effetti contrari sugli investitori al dettaglio”. Secondo quanto riferiva l’agenzia Ansa di sabato 2 luglio, “si guarda a soluzioni che possono essere possibili sotto lo scenario di ricapitalizzazione preventiva, previsto dalla direttiva Brrd (risoluzione crisi enti creditizi) sulla risoluzione delle banche. Si tratta di quelle stesse misure già applicate lo scorso anno per la Grecia, nel contesto della ripatrimonializzazione delle quattro banche (Alpha Bank, Piraeus Bank, National Bank of Greece ed Eurobank), a cui arrivarono ad agosto 10 miliardi di euro per rafforzare il capitale”. Che cosa di preciso possa significare non è chiaro, anche perché le trattative sono in corso e la situazione è in continuo mutamento, ma giova ricordare che l’estate scorsa la Grecia aveva raggiunto il sofferto accordo con i creditori (Ue, Bce e Fmi) nell’ambito del Meccanismo europeo di stabilità (Esm).

IL DOSSIER MPS

La trattativa tra governo e commissione Ue per nuovi interventi a sostegno delle banche ha un nome non esplicitato, ovvero Mps: per l’istituto senese guidato dall’ad, Fabrizio Viola, la necessità di una ricapitalizzazione emergerà, secondo gli analisti, dai risultati degli stress test che l’Eba, l’autorità di vigilanza europea, pubblicherà a fine mese. Nelle pieghe della direttiva europea Brrd, in particolare all’articolo 32 comma 4.III, ci sarebbe la soluzione che renderebbe possibile l’intervento pubblico, ha scritto ieri il Corriere della Sera: “Si tratta della ricapitalizzazione «in via precauzionale» per le banche che non superano lo scenario «avverso» dello stress test. Esattamente ciò che potrebbe accadere a Mps. A quel punto il governo potrebbe ricapitalizzare la banca con fondi pubblici senza che ciò si configuri come un aiuto di Stato e senza mettere la stessa banca in risoluzione”, secondo le intenzioni dell’esecutivo riferite da Enrico Marro del Corsera. Non verrebbero toccati i depositi e sarebbe possibile anche salvaguardare gli obbligazionisti retail in due modi: o con un meccanismo di rimborso o con lo Stato che acquisterebbe gli stessi bond a un prezzo tale che i possessori ci rimetterebbero poco o nulla. Le obbligazioni in mano al Tesoro sarebbero convertibili in azioni della stessa banca”.

LA LETTERA DELLA BCE E LA NOTA DELL’ISTITUTO DI SIENA

Nel frattempo, prima del referendum sulla Brexit, da Francoforte, sede della Bce presieduta da Mario Draghi, è partita all’indirizzo di Mps una lettera perentoria. La Banca centrale chiede di fatto all’istituto senese un piano triennale per riportare a livelli fisiologici l’ammontare di crediti difficili, ha svelato oggi il quotidiano la Repubblica in un articolo di Andrea Greco. Ovvero, scrive il quotidiano, “significa più o meno che i banchieri senesi devono compilare una nuova mappa per smaltire almeno una decina di miliardi di euro di sofferenze lorde, degli oltre 27 miliardi che ne frenano da anni il rilancio. Gli obiettivi sono più alti di quelli del piano strategico Mps di un anno fa, che prevedeva al 2018 la vendita di 5,5 miliardi di sofferenze e il recupero interno di altri 6 miliardi”. La banca ha poi comunicato, dopo l’articolo di Repubblica, “di aver ricevuto dalla Banca Centrale Europea una lettera con cui viene notificata l’intenzione di richiedere alla Banca il rispetto di determinati requisiti relativi, in particolare, ai crediti deteriorati. Tali requisiti sono indicati in una “bozza” di decisione, in merito alla quale è stata data la possibilità alla Banca di presentare le proprie argomentazioni a riguardo entro l’8 luglio 2016. Più nel dettaglio, la “bozza” di decisione comprende una tabella – di seguito riportata – secondo cui la Banca è tenuta alla riduzione dei non performing loans nel prossimo triennio ed al raggiungimento dei parametri indicati”. “Nella “bozza” di decisione viene anche richiesto di fornire alla BCE entro il prossimo 3 ottobre 2016 un piano che definisca quali misure possano essere adottate dalla Banca per ridurre il rapporto tra il totale dei non performing loans ed il totale dei crediti (NPL ratio) al 20% nel 2018″. I suddetti parametri, si legge ancora nella nota di Mps, “sono in linea con gli obiettivi di un programma di specifiche azioni, recentemente approvato dai competenti organi della Banca e contestualmente sottoposto alle valutazioni della BCE, finalizzato all’incremento dell’importo delle dismissioni di non performing loans già previsto nel piano industriale 2016/2018″.

IL “PIANO B” ATLANTE

E se il governo Renzi non riuscisse a trovare la quadra con l’Europa sulle banche? E’ una eventualità che ovviamente non si può escludere, data l’ostilità della Germania, con la cancelliera Merkel che la settimana scorsa ha dichiarato che le regole sul bail-in non possono essere cambiate ogni due anni (in realtà si sta cercando una soluzione nella cornice delle stesse). Ecco perché, in parallelo, ci si sta muovendo anche in territorio domestico. In particolare, si sta cercando di rafforzare la dotazione del fondo “di sistema” gestito dalla Quaestio di Alessandro Penati, Atlante, inizialmente pari a 4,2 miliardi, quasi 2,5 dei quali già usati per gli aumenti di capitale della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Un ruolo centrale, in questo processo, potrebbe averlo la Cassa depositi e prestiti, che ha già iniettato 600-700 milioni in Atlante e potrebbe aprire il portafoglio per altri 500, ma sono state sondate le banche (già grandi socie di Atlante e scettiche ad alzare la posta), Poste Vita e le casse previdenziali (che pure non appaiono convinte, come ha ricostruito in questo articolo Formiche.net). Resta il fatto che, se si raggiungesse un accordo con l’Ue, anche Atlante potrebbe lavorare con maggiore tranquillità sul fronte dei crediti deteriorati. In questo caso, infatti, il fondo è chiamato a un compito complesso: comprarli a un prezzo maggiore di quello molto basso offerto dal mercato ma fare in modo che l’investimento per i sottoscrittori di Atlante sia comunque redditizio.

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