Oddìo, dalla lettura combinata di dichiarazioni, interviste e titoli di giornali si ha la sensazione che stia tornando, se non è già tornato, Dalemoni: il personaggio inventato sull’Espresso di una ventina d’anni fa da Giampaolo Pansa incrociando i nomi, e le teste, di Massimo D’Alema, allora potente segretario dei Democratici di sinistra, ultima edizione del disciolto Pci, e Silvio Berlusconi. Che era stato appena sconfitto nelle elezioni politiche anticipate del 1996 da Romano Prodi conservando però un forte potere contrattuale sul percorso di una riforma costituzionale inutilmente inseguita già negli anni della tanto vituperata prima Repubblica.
Il pur ormai rottamato D’Alema, riprendendo con La Stampa dopo l’ultima riunione della direzione del Pd, dov’è rimasto silenzioso, il discorso avviato dopo le elezioni amministrative di giugno col Corriere della Sera, è tornato a spiegare che il suo annunciato e convinto no referendario alla riforma costituzionale serve ad una crisi ministeriale finalizzata non allo scioglimento anticipato delle Camere ma alla formazione di un altro governo per una riforma più condivisa, come si dice in gergo politico. Una riforma cioè, a cominciare dalla legge elettorale, approvata con un consenso parlamentare più largo di quello ottenuto da Renzi, ricorrendo alla fiducia, con il cosiddetto Italicum, valido solo per la Camera e caratterizzato dal premio di maggioranza alla lista, non alla coalizione più votata.
Il pur convalescente e affaticato Berlusconi ha lasciato l’ospedale milanese dove è stato operato un mese fa a cuore aperto spiegando che anche il suo no referendario alla riforma costituzionale serve, in fondo, ad arrivare ad un altro governo per cambiare l’Italicum. Che nella versione attuale garantirebbe la vittoria nelle prossime elezioni politiche, anticipate o ordinarie che siano, al movimento di Beppe Grillo, con ciò riconoscendo che allo stato delle cose, senza avere altro tempo a disposizione, il centrodestra che lui spera di ricostruire non sarebbe competitivo col Pd.
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A conforto delle opinioni espresse da Dalemoni, e condivise nell’ultima riunione della direzione del Pd non solo dalle minoranze di sinistra ma anche dal forte azionista di maggioranza Dario Franceschini, una specie di cane da tartufo nel suo partito per l’abilità già dimostrata di avvertire dove e quando scavare per trovare il tesoro di una nuova combinazione di potere, ci sono i dati appena esposti sul Corriere della Sera da Nando Pagnoncelli. Che, sondaggi alla mano, ha segnalato due cose.
Il primo dato è il sorpasso dei grillini sul Pd, sia pure per meno di un punto. Il secondo dato, ancora più significativo, è la conferma di ciò che si è visto nei ballottaggi comunali di giugno, dai quali il partito guidato da Matteo Renzi è uscito con le ossa letteralmente rotte. In un secondo turno di elezioni politiche il movimento di Grillo supererebbe non di uno ma di ben 13 punti il Pd. Ripeto: tredici punti, ai quali concorrerebbero, com’è appunto accaduto nei Comuni conquistati dai pentastellati, molti elettori di area di centrodestra. Che, alle strette, non avendo un loro candidato da votare preferirebbero quello dei grillini.
Il risultato cambierebbe ma di poco se il Pd, con o senza Renzi, archiviasse la famosa vocazione maggioritaria, predicata all’origine da Walter Veltroni e riesumata dallo stesso Renzi, per fare blocco con la sinistra esterna, come fece del 2013 l’allora segretario Pier Luigi Bersani con i vendoliani. Il vantaggio dei grillini scenderebbe da 13 a 9 punti. Che sarebbero ugualmente tanti. Non ci sarebbe insomma trippa per gatti, direbbero a Roma, dove intanto i grillini fanno le loro pur sofferte e goffe prove di governo in Campidoglio giocando come i vecchi e odiati partiti con le caselle e i nomi degli assessori, pur di una giunta monocolore: quella di Virginia Raggi. Anche le stelle, come le rose, hanno evidentemente le loro spine in politica.
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Accennavo prima al tempo di cui Berlusconi, ottimisticamente propostosi di essere ancora “utile all’Italia”, avrebbe bisogno per ricostruire un centrodestra competitivo col Pd. Un centrodestra certamente non a trazione leghista, come ancora sognano Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ma comprensivo almeno di una parte, se non di tutti i pezzi staccatisi negli ultimi tre anni, a cominciare dal più grosso, che è il Nuovo Centro Destra costituito nel 2013 dall’allora e ancora ministro dell’Interno Angelino Alfano. Che ha in qualche modo fatto le prove di rientro con le elezioni comunali di Milano, riconoscendosi nella candidatura di Stefano Parisi a sindaco e sfiorando la vittoria sul renziano Giuseppe Sala.
Ma, ammesso e non concesso che Milano sia politicamente esportabile nel resto del Paese senza perdere il necessario collegamento con la Lega di Salvini, non è ancora francamente valutabile quanta parte del partitino di Alfano sia recuperabile al progetto di Berlusconi. Gli alfaniani sono divisi fra quanti non vedono l’ora di tornare con l’ex presidente del Consiglio e quanti, a cominciare proprio da Alfano, sono attratti da un’alleanza organica con Renzi, sempre che questi naturalmente esca indenne dal referendum sulla riforma costituzionale, come si è appena augurato, sia pure per altri e più alti fini, l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano fra le solite proteste di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano.
La posizione di Alfano negli ultimi giorni sembra indebolita da quelli che lui ha definito “scarti” di un’inchiesta giudiziaria su appalti e altri affari ministeriali. Scarti costituiti dalle ormai solite intercettazioni telefoniche che gli inquirenti non hanno, almeno sinora, ritenuto sufficienti a coinvolgere il ministro dell’Interno nell’inchiesta ma nelle quali se ne fa il nome, o il cognome, per via di un fratello assunto in un’azienda delle Poste.
E’ una vicenda, questa, che indebolendo Alfano potrebbe far gioco politicamente a Berlusconi. Il quale tuttavia non potrebbe mai vantarsene senza contraddire il garantismo di cui è in qualche modo la bandiera.