Navy.mil, il sito ufficiale della Marina americana, ha pubblicato un comunicato stampa dalla “Dwight Eisenhower” datato 29 giugno, in cui si parla del primo round di attacchi (avvenuto il giorno precedente) contro le forze del Califfato lanciati dai velivoli trasportati a bordo della portaerei di stanza adesso nel Mediterraneo, e c’è scritto che sotto le bombe dei caccia ci sono finiti obiettivi in “Libia” e Siria”.
Successivamente, lunedì 11 luglio, dopo diversi giorni e oltre 12mila condivisioni sui social network, il report è stato modificato: la parola “Libya” è stata sostituita con “Iraq”. Ossia, il comunicato della Marina è stato riallineato con quello dell’Operation Inherent Resolve (OIR, che comanda tutte le iniziative contro lo Stato islamico, indicata nel doc della marina), nel quale si diceva che, nello stesso giorno in cui il report dalla Eisenhower metteva la Libia tra gli obiettivi colpiti dai suoi jet, c’erano state azioni in Siria e Iraq, senza citare la Libia. Il motivo di questa discrepanza non è chiaro. C’è semplicemente stato un errore da parte di chi ha redatto il report dalla portaerei? E come mai è passato così tanto tempo prima della correzione? Ma, è possibile che gli esperti marinai americani abbiano commesso una svista del genere? Oppure c’è dell’altro? Ci sono operazioni che su cui è bene tenere un profilo basso, nascosto, e che invece per errore erano sfuggite nella prima stesura della marina? Si tratta di speculazioni. Comunque sia, va registrata la gaffe insolita per i media della Difesa statunitensi: contatti sia via Twitter che via mail, i portavoce dell’OIR e della US Navy non hanno fornito chiarimenti.
Anche se ufficialmente, dopo la modifica del comunicato, dell’eventuale attacco non c’è più traccia, ci sono alcune considerazioni da valutare.
Gli Stati Uniti ufficialmente non colpiscono la Libia da mesi, ossia da quando, poco dopo le tre di notte di sabato 19 febbraio, centrarono un training camp nei pressi di Sabratha, a est di Tripoli: in quell’occasione le informazioni a disposizioni delle intelligence occidentali riportavano che quello era uno dei luoghi da cui si erano organizzati gli attacchi letali in Tunisia e che la pianificazione non era finita, anche per la presenza di alcuni importanti comandanti sul posto. Fu un grande e rumoroso attacco aereo quello, condotto da due F15 decollati dall’Inghilterra; a quei tempi ancora la base galleggiante della Eisenhower non era ancora nelle acque mediterranee per partecipare alle operazioni “anti-IS”. Esattamente i due caccia partirono da Lakenheath, nel Suffolk, che è la base americana da cui tre mesi prima (era la notte del 13 novembre 2015, Parigi era appena stata attaccata dalla guerriglia jihadista) si erano alzati anche gli altri due F15 della Liberty Wing che eliminarono con molta più discrezione il leader di tutto lo Stato islamico in Libia, Abu Nabil al Anbari. A Sabratha il bombardamento uccise diversi baghdadisti, ma non solo: nei giorni successivi, sollecitati dall’azione americana, i libici delle forze di sicurezza locale (che finora avevano preferito la stabilità alla repressione) cominciarono a dare la caccia agli uomini del Califfo; fu durante una di queste retate che due ostaggi italiani rimasero uccisi, mentre altri due furono liberati. Pochi giorni dopo si scatenò anche una reazione di rappresaglia verso Ben Gardane, appena oltre il confine tunisino, dove un grosso attacco dei soldati di Abu Bakr al Baghdadi fu fermato dall’esercito di Tunisi mentre cercavano di conquistare l’intero villaggio. Fu la prima manifestazione di forza dell’IS nell’ovest libico.
In quell’occasione il Pentagono commentò quasi subito la missione. Stavolta invece c’è questo strano doppio passaggio sui comunicati: “Per il 28 giugno c’è una contraddizione tra due fonti ufficiali statunitensi” dice a Formiche.net Alessandro Pagano Dritto, esperto della situazione in Libia che per primo ha segnalato su Twitter la discrepanza, curatore del blog “Cronache libiche” (che osserva da diversi anni le vicende del paese nordafricano) e collaboratore di Limes. “Visto l’ultimo caso di Sabratha a febbraio, che creò non poco disordine, un coinvolgimento attivo degli alleati, presumibilmente a Sirte, al di là dell’intelligence voglio dire, sarebbe una notizia importante” aggiunge. Pagano Dritto parla di Sirte perché Bengasi, l’altro grosso teatro di guerra in Libia, è un terreno molto più accidentato dove intervenire per le potenze straniere, non ufficialmente alleate a Khalifa Haftar e alle prese, lì, con gruppi di milizie non tutti terroristi e alcuni vicini alle realtà di Misurata che sostengono il governo-Onu a Tripoli. “Sirte in questo senso è uno scenario meno complesso, perché il nemico è uno e inequivocabilmente indicato come terrorista dalla Comunità internazionale e dai libici stessi: e questo anche se non mancano notizie stampa che indicano un possibile coinvolgimento occidentale anche in Bengasi“. A Sirte, la roccaforte libica dello Stato islamico, proprio le milizie misuratine fedeli a Tripoli hanno lanciato qualche settimana fa una campagna di riconquista che ha avuto effetti positivi. I baghdadisti sono pressati su ogni lato, alcuni sono fuggiti, altri hanno stretto le difese in una porzione cittadina sempre più ristretta: ma queste evoluzioni militari rischiano ogni giorno di fermarsi sotto le ondate controffensive dei soldati del Califfato, e dal punto di vista tattico la copertura aerea occidentale potrebbe essere la svolta definitiva.
Restando sul campo della supposizioni. È forse per evitare complicazioni che il Pentagono preferisce tenere un profilo non ufficiale su eventuali azioni aeree in Libia? Potrebbe crearsi un problema politico per il Governo di accordo nazionale (Gna) guidato sotto egida Onu da Fayez Serraj, che, dopo mesi di sofferenze, in questi giorni s’è finalmente riuscito a muovere fuori dalla base navale di Abusetta ed entrare negli uffici presidenziali? “Il Gna non ha mai autorizzato bombardamenti stranieri, soprattutto in uno scenario dove a combattere sono proprio le truppe almeno nominalmente alle sue dipendenze. Sabratha in questo senso era diversa, perché lì a febbraio non c’era nessuna operazione antiterrorismo in corso e anzi il Gna non era ancora attivo a Tripoli”. “Nemmeno al grande incontro diplomatico di Vienna (dove la comunità internazionale rinvigorì il supporto al processo unitario libico. ndr) Serraj parlò di autorizzare bombardamenti stranieri: semmai chiese supporti d’armamenti per i quali però, a ormai quasi due mesi di distanza, non ha mai fatto domanda esplicita”.
La retorica cavalcata dal premier designato ha spesso ruotato attorno alla volontà dei libici di risolvere da soli i problemi della Libia, chiedendo sostegno e aiuto, anche militare, ma non presenza straniera sul proprio territorio. Si tratta soprattutto di una necessità politica per accaparrarsi il consenso dei concittadini. Un conto è intestarsi la vittoria “da solo” contro l’IS, un altro è farlo aiutato “dagli stranieri”. E dopo mesi in cui il Gna non riesce ad arrivare alla legittimazione definitiva per via dell’opposizione dalla Cirenaica, il consenso della popolazione (da rafforzare) è l’unica arma contro la sua palese fragilità.
In un reportage da Sirte uscito il 5 luglio, Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera scriveva: “Isis può molto poco contro i droni inglesi e americani che colpiscono dall’alto”. Un’osservazione che aumenta il dubbio sulle dichiarazioni ufficiali americane.
(Foto: Wikipedia, un F-15E del 492th Fighter Squadron a Lakenheath)