Con l’arrivo ieri sera del neo primo ministro Theresa May alle 18 a Buckingham Palace si è concluso il passaggio di testimone con David Cameron alla guida dell’Inghilterra.
Si tratta di un evento importantissimo nello scacchiere europeo, ma si tratta anche di un’ulteriore prova di stabilità del sistema politico anglosassone. La carica simbolica del personaggio è di straordinaria rilevanza. May porta nuovamente una donna a Downing Street, attualizzando, senza troppo folklore, le aspettative raccolte nell’immagine di una figura iconografica del conservatorismo globale: Margaret Thatcher.
Tanto più che la nuova leader dei Tory diverrà interlocutrice diretta di un’altra grande figura politica femminile che incarna, nel bene e nel male, questa Europa a guida tedesca, tanto contestata e impopolare: Angela Merkel. Le prime parole di investitura della May sulla finalità sociale della politica destano perciò attenzione, ma non altrettanto stupore.
Anche George Bush nel 2000 fece riferimento al ‘conservatorismo compassionevole’ e nel 2008 Cameron alla ‘Big society’. Tale sensibilità per la gente comune e per un’idea comunitaria di vita sociale è quanto separa la May da Farage, e qualsiasi conservatorismo serio dall’ideologia meramente liberale, incentrata sul primato dell’individuo, nonché dal nazionalismo integrale dell’estrema destra. La stessa Thatcher quando diceva che la ‘società non esiste’, come ha osservato Roger Scruton, intendeva dire che non esiste al di fuori della comunità nazionale che ne esprime l’andamento e ne concretizza la sovranità politica e democratica, molto più e molto prima dello Stato e degli organismi internazionali.
Se si va alla radice di questo orientamento culturale si trovano così tutti i sintagmi espressi dalla May ieri. Basti considerare che la fonte filosofica più antica e autorevole della visione ‘New Tory’, Edmund Burke, concepiva esattamente la visione tradizionalista come incentrata sulla cosiddetta ‘società naturale’, fiera espressione di una democrazia reale che si oppone ad ogni forma di potere finanziario e politico artificiale, esterno al contesto concreto di vita dei popoli.
La May, in definitiva, si farà interprete di questa linea di tendenza, di questa idea di mondo, che trova nel conservatorismo inglese una variante di altissimo pregio, vera anima di una Brexit non populista, la quale dovrebbe avere nel popolarismo una variante moderata, ragionevole e riformatrice, di alternativa al socialismo.
Non nascondiamocelo, oggi in Europa e nel mondo sta emergendo una diversa lettura della storia, e una voglia di interpretare il futuro fieramente opposta al progressismo internazionale di Obama, Hollande, e della finanza astrusa e onnipotente del FMI e della rete dei sistemi bancari.
Tornare ai popoli significa guardare alle piccole cose che la politica può fare, senza optare per sradicamenti e gestioni dall’alto che producono sempre, in nome di una visione grande e giusta, iniquità, povertà, abbandono e perdita di libertà.
In questo senso, la May non è la Le Pen e forse neanche Trump. La nuova Lady esprime piuttosto una modalità di ripartire dal conosciuto, da ciò che è vicino e amato come nostro, una via verso il recupero delle origini virtuose della tradizione sentimentale della politica occidentale, schiacciata in questi anni da sogni utopistici e da un’insana e oligarchica volontà di potenza.
Hanna Arendt diceva, non a caso, che l’unica alternativa al dominio incontrollato e anonimo del potere e della macchinazione è l’andare di concerto della gente comune, delle persone reali, dei cittadini: da tale socialità deriva la solidarietà e l’aiuto reciproco che segna il tratto distintivo di uomini e donne in grado di sentirsi insieme, condividendo una lingua, dei costumi e una responsabilità reciproca, oltre che un territorio e una storia.
Ebbene sì, diciamolo pure: Theresa May è adesso una speranza anche per l’Europa, da cui il Regno Unito ha separato le sue sorti. Soprattutto il suo stile incarna la più civile e saggia opposizione alla tecnocrazia e agli abusi antidemocratici della condivisione forzata di destini eterogenei, che ha portato il Vecchio Continente ad arenarsi nella mancanza di politica estera e nell’incapacità di gestire immigrazione e multiculturalismo.
E se qualcosa di rilevante potrà nascere a sud della Manica potrà venire fuori soltanto se vi sarà l’audacia di afferrare il senso originariamente popolare dell’alternativa moderata al socialismo.
Vengono in mente, a titolo di conclusione, le bellissime parole pronunciate da Aldo Moro al IX congresso della Dc il 16 settembre del 1964: ”il nostro no al comunismo non ha nulla a che fare con l’anticomunismo della destra totalitaria. Il nostro no è un no democratico e popolare, che vuole sviluppare e riempire di contenuto la libertà di ogni uomo e di ogni popolo”.
Queste considerazione illuminate di allora possono tranquillamente essere trasposte all’Unione Europea di oggi, permettendo di comprendere la ragione della Brexit conservatrice, ma anche il deficit culturale profondo del social-popolarismo a guida tedesca.
Recuperare e ripensare coraggiosamente alcuni fondamenti ideali che danno rilievo esistenziale alla democrazia aiuterebbe, in fin dei conti, non soltanto a capire cosa pensino i conservatori inglesi, ma quale nuova aspirazione e quali nuove idee dovrebbe avere il popolarismo europeo per salvare le nazioni dalla demagogia e dalla perdita di consenso.