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Turchia, il golpe fallito e il futuro di Erdogan

Non è vero che il tentativo di golpe in Turchia è ancora oscuro negli obiettivi che si prefiggeva di raggiungere. Al contrario, è fin troppo chiaro l’intento del manipolo di ufficiali che ha cercato di prendere il potere e deporre Recep Tayyip Erdogan. I golpisti si muovono, come hanno dimostrato nei tre precedenti colpi di Stato ((1960, 1971, 1980), “saggiando” prima le reazioni e poi dispiegando la loro strategia. I principali burattinai restano dietro le quinte a guidare le operazioni. Se il tentativo riesce si mostrano alla nazione come “salvatori”; se, al contrario, fallisce possono sempre dire che una scheggia incontrollabile delle forze armate si è posta fuori dalla legalità costituzionale.

Tuttavia, comunque vada a finire – e presumiamo che non finirà bene – la rivolta militare, che ha le sue centrali ad Ankara e ad Istanbul, è motivata da un ritorno all’ordine così come si era formato e consolidato prima che l’attuale autocrate desse una vigorosa sterzata in senso islamista alla sua politica interna e mostrasse aspirazioni egemoniche regionali inimicandosi tutti i vicini. La Turchia di Erdogan è stata, dai giorni di Gezi Park nel 2013, un “peso” per la Nato. I militari intendono rientrare a pieno titolo, sgombrando il campo dagli equivoci, nell’ambito Atlantico dove i rapporti di forza e di reciproca comprensione tra gli Stati devono essere chiari. Gli sbandamenti neo-ottomani di Erdogan non hanno favorito la coesione tra la Turchia ed i suoi partner tradizionali con ricadute oltre l’alleanza: la inimicizia con la Siria e soprattutto con la Russia di Putin ha di fatto posto le premesse per un isolamento che il Paese non si può permettere.

Erdogan può anche riprendere il pieno potere, ma la sua fuga da Bodrum, il permesso negatogli di atterrare ad Istanbul ed il rifiuto di Berlino di accoglierlo sono elementi che la  dicono lunga sulla precarietà della sua posizione alla guida di una Turchia comprensibilmente frastornata, impaurita e scossa dal rumore dei cingoli dei carri armati che la gente, a mani nude, ha cercato di fermare nelle strade di Istanbul dove è provvisoriamente tornato Erdogan, dopo il suo maldestro tentativo di espatrio, promettendo vendetta.

E dalla vendetta, che certamente ci sarà, scaturirà altrettanto sicuramente un conflitto tra gli islamisti sostenitori del presidente ed i laici le cui prove generali fecero a Gezi Park e a piazza Taksim, germi di rivolta democratica contro le derive autoritarie di Erdogan sfociate nella nuova Costituzione autoritaria e nelle dimissioni del premier Ahmet Davutoglu, ex-fedelissimo del presidente entrato con lui in rotta di collisione proprio per gli accenti sempre più autocratici della sua politica interna e di aperta ostilità al mondo esterno: non si dimentichi che Davutoglu nel 2009, da ministro degli Esteri, elaborò una lungimirante strategia internazionale che avrebbe dovuto portare la Turchia nell’Unione europea.

Adesso, in attesa di repressioni e reazioni, la cosiddetta società civile turca non sa cosa augurarsi realisticamente, al di là di una generica aspettativa al ritorno dell’ordine democratico. Dei militari diffida, Erdogan lo teme, la guerra civile tra fazioni per molti è lo sbocco inevitabile con l’aggravante di un inserimento nel conflitto degli indipendentisti curdi che vorranno essere della partita, mentre gli islamisti radicali non si lasceranno sfuggire l’occasione per soffiare sul fuoco e spingere maggiormente il partito islamico di Erdogan ad assumere posizioni più decise. L’indebolimento della Turchia non potrà oggettivamente contrastare le mire dello Stato Islamico che ai confini meridionali spinge per allargare la sua zona di influenza. Troppi fronti aperti. Ed i militari, pur non godendo di simpatie tra la popolazione, possono sempre appellarsi alla comunità internazionale perché metta un freno alle ambizioni di Erdogan che non ha nessuno fuori dai confini che lo sostenga.

Una situazione oggettivamente difficile, prevedibile, tuttavia, già tre anni fa quando il presidente entrò in rotta di collisione con coloro che avevano creduto alle sue promesse poi tradite, lo sconfessarono davanti al mondo intero. Inoltre, l’ondivago atteggiamento nei confronti dell’offensiva islamista nella regione ha messo nell’angolo Erdogan che non si è risparmiato nel crearsi nuovi nemici, il più potente dei quali, Vladimir Putin, non gli ha mai perdonato l’abbattimento di un suo areo considerato a Mosca un vero e proprio atto di guerra.

La solitudine di Erdogan è pericolosa, almeno quanto il temuto avvento dei militari al potere. La Turchia, comunque si giudichi la situazione, è sull’orlo del baratro. Lo spettro di Ataturk si aggira inquieto, ma sembra che nessuno più voglia ricordarlo. La generazione di Gezi Park e quella del fanatismo neo-ottomano giocheranno la partita decisiva che non si sa quanto durerà, né quali esiti avrà.

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