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Il terrorismo firmato Isis è una nuova strategia di guerra

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Due uomini, infatuati dello Stato islamico, hanno attaccato una chiesa di Rouen, in Normandia: hanno ucciso un parroco e ferito gravemente uno dei fedeli presi in ostaggio prima di essere uccisi a loro volta dalla polizia. Un’azione in un luogo di culto cattolico è un segnale scioccante, anche perché l’attentato è avvenuto durante la celebrazione della messa mattutina. Dall’inizio del 2015 il numero di attacchi terroristici è cresciuto in modo spropositato. Molti di questi hanno colpito aree a maggioranza musulmana, come l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, il Pakistan o il Bangladesh, altri l’Occidente, soprattutto l’Europa. Diverse azioni sono state rivendicate dallo Stato islamico, che ormai si intesta i gesti con la rituale formula contenuta nella battuta d’agenzia della sedicente Amaq news agency “in risposta alla chiamata per colpire le nazioni impegnate nella Coalizione che combatte lo Stato islamico”; anche per Rouen stesso layout, quasi fosse ormai un modulo precompilato. Altri atti terroristici sono invece avvenuti senza un apparente collegamento con gruppi organizzati.
Quello che sta accadendo complica il quadro militare: se da un lato la battaglia in Siria e in Iraq contro l’aspetto statuale dell’IS trova un nemico individuabile, come i soldati del Califfato (anche se non si tratta di un esercito regolare canonico, basta vedere i video dei combattenti che sparano in ciabatte e maglie dei calciatori famosi), il contrasto alla dimensione terroristica è sempre più faticoso anche a causa dei cosiddetti lupi solitari, dei liberamente ispirati, delle emulazioni.

I CAMBIAMENTI NEL PANORAMA INTERNAZIONALE

Qual è il nuovo, complesso quadro che ci stiamo trovando davanti e con cui pare dovremo abituarci a fare i conti in futuro, anche in ottica di politiche di difesa e sicurezza? Dice a Formiche.net Lorenzo Carrieri, analista che collabora con diversi centri di ricerca e con la rivista americana FairObserver, postgraduate student presso School of Advanced International Studies della John Hopkins University, specializzato in international security: “Per rispondere bisogna necessariamente inserire certi attori, come l’IS, all’interno dei cambiamenti avvenuti nel contesto internazionale dalla fine della Guerra Fredda”. “Dalla fine della contrapposizione ideologica, c’è stata la diminuzione del numero di violenti conflitti inter-statali, la promozione dei processi di pace da parte dell’ONU, lo sviluppo economico e l’ondata di democratizzazione che ha investito soprattutto i paesi dell’ex URSS. Ma insieme a questi cambiamenti in positivo, l’era postmoderna ha visto una dispersione del controllo sulla violenza organizzata a molte forme di attori non statali”. “Mentre le guerre moderne venivano combattute tra Stati, ognuno formalmente organizzato e gerarchicamente strutturato con forze armate specializzate, oggigiorno – aggiunge Carrieri – i conflitti hanno confini labile e vengono combattuti all’interno degli Stati e al di fuori di zone di conflitto da attori irregolari“. Come l’IS appunto.

COS’È LA GUERRA IBRIDA

Randal Schweller ha definito quest’epoca come l’età dell’entropia, dove la politica internazionale, fino a poco tempo fa ancorata a principi prevedibili e relativamente costanti di un mondo bi-polare, con la fine della Guerra Fredda e l’inizio dell’era unipolare, è diventata irregolare, instabile e priva di regolarità comportamentali”. È quello che ci troviamo davanti è ciò che viene definita la guerra ibrida, con esempi che vanno dal terrorismo jihadista alle azioni russe in Ucraina. “Con questo termine s’intende un conflitto dove i perpetratori portano avanti un mix di tattiche militari e non-militari al fine di influenzare un comportamento di contro-bilanciamento, sfruttando le vulnerabilità dei sistemi democratici per annullare la superiore forza convenzionale degli avversari”. Oggi la guerra ibrida integra una combinazione di funzionalità differenti tra loro, sostiene Carrieri, “parti di guerra convenzionale, sommate all’uso di armi non convenzionali e facilmente assemblabili con pezzi di scarto (per lo più a bassa tecnologia, low-tech come IED, VBIED. ndr), non-attributable forces (i soldati russi in Ucraina senza mostrine. ndr), tattiche terroristiche come i kamikaze, cyber-guerra e l’uso delle informazioni come strategia di propaganda”.
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IL TERRORISMO COME FORMA DI GUERRA ASIMMETRICA

“L’uso di tattiche definite terroristiche (molti hanno criticato questo aggettivo per la sua accezione negativa, preferendo di volta in volta termini quali violenza politica, guerra irregolare, conflitto a bassa intensità, guerra sporca) ha sempre attratto coloro che cercano il cambiamento dello status quo contro un avversario più potente”. L’esempio, i miliziani di Abu Bakr al Baghdadi. L’impiego prolungato della violenza terroristica contro obiettivi simbolici o civili di questi gruppi vuole attirare l’attenzione su un risentimento politico e/o provocare una risposta draconiana insostenibile”. È una vecchia tattica che al Qaeda aveva in mente: tempestare l’Occidente di attacchi minori, in modo da destabilizzare l’apparato di difesa, l’equilibrio economico, la condizione sociale. Un progetto di diversi anni fa, a cui i qaedisti dedicavano riflessione e pianificazione. Ora la nuova jihad dello Stato islamico ha reso tutto più rapido: meno progettazione, maggiore coinvolgimento. Grazie a ciò le istanze attecchiscono non solo tra i combattenti veri e propri, ma si allargano ai neo-radicalizzati, ai problematici sociali, ai depressi (c’è quella di cui spesso si parla in questo momento: “l’islamizzazione della radicalizzazione sociale”, definizione dell’islamologo francese Olivier Roy). Gli uomini che hanno collegamenti diretti con le regioni califfali fanno da tramite, da appoggi logistici, da predicatori per accaparrarsi proseliti. Si crea uno spirito di emulazione, dove l’ideologia integralista e integerrima del jihad assume un ruolo secondario. “Nonostante molti autori, Mary Kaldor su tutti, abbiano descritto lo scopo di questi conflitti come identitario, l’obiettivo di fondo dei perpetratori di tali strumenti rimane politico”. Il terrorismo come forma di guerra asimmetrica si trasforma in un’arma più potente di una bomba atomica, perché le società colpite vivono in un continuo stato di emergenza, ansia, insicurezza: gli effetti vengono massimizzati, con costi bassissimi: a questo punto non serve nemmeno la pianificazione, sono azioni individuali per cui basta lasciare una sorta di testamento/dedica; nel rivendico dell’attacco a Ansbach, pochi giorni fa, l’attentatore che si è fatto saltare in aria viene definito “the individual […] soldier of Islamic State“, l’attentatore della strage di Nizza non era nemmeno un soldato, era un semplice emulatore nemmeno troppo devoto.

LIVELLAMENTO DELLE FORZE

Inoltre, spiega Carrieri, “l’informazione gioca un ruolo centrale per questi attori. Essi la utilizzano sia come propaganda sia come strumento per annullare, in qualche modo, il vantaggio tecnologico degli stati moderni. Infatti contro questi attori non-statuali, gli stati democratici devono ricorrere a determinate strategie di pratiche emergenziali e stati di eccezione, incluse la sorveglianza di massa, assassini mirati (come quelli con i droni. ndr), annullamento dell’habeas corpus, che le fanno cadere in contraddizione”. Questo significa che gli attori ibridi sono in grado di livellare e pareggiare la loro asimmetria di forze? “Sì, giocando sulla sensibilità dell’opinione pubblica di uno stato democratico per le sue vittime collaterali e sul logoramento nella determinazione nel combatterle senza rinunciare a sicurezza e/o spazi di libertà. Il che, alla lunga, mette alla prova la resilienza di queste società ed erode la volontà dei cittadini di portare avanti il conflitto.

(Prima parte dell’analisi, le altre saranno pubblicate nei prossimi giorni)

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