Prima di ogni elezione presidenziale, dal 1988 in avanti, i membri dell’Harvard Republican Club si riuniscono per discutere e alla fine concedere l’appoggio al candidato alla Casa Bianca del Partito Repubblicano: stavolta, per la prima volta in 128 anni, non sarà così. Il club bastione del conservatorismo dell’Università di Harvard non voterà il runner rep a novembre prossimo; ossia, i suoi membri non sosterranno la corsa di Donald Trump. “Trump ha opinioni che sono antitetiche ai nostri valori non solo come i repubblicani, ma come americani” si legge in un comunicato pubblicato il 4 agosto sulla pagina Facebook del club. Ancora, se entrasse in vigore la sua piattaforma politica “metterebbe in pericolo la nostra sicurezza sia in patria che all’estero”.
È un comunicato duro, con critiche che colpiscono ogni pezzo del Trump-pensiero: le “draconiane politiche commerciali protezionistiche”, le “restrizioni sull’immigrazione” che potrebbero “ingrandire il nostro deficit federale”, l'”isolazionismo out-of-step con la tradizione americana”, “le sue tendenze autoritarie e le civetterie con il fascismo, senza pari nella storia della nostra democrazia”, “il presidente Reagan si vergognerebbe di lui”.
Ovviamente la lettera non si chiude con un endorsement alla candidata democratica Hillary Clinton, ma il club repubblicano dell’università di Cambridge, in Massachusetts, promette che si impegnerà per ricostruire il partito e cercare di isolare chi ha sostenuto la corsa di Trump. Il mancato appoggio da parte di una delle istituzioni dell’intellighenzia conservatrice americane, è un altro strappo tra quello che si inizia a definire il New Trump Party e il Grand Old Party, il nome pieno di storia, densa, con cui i repubblicani chiamano il loro partito.
Venerdì dalle pagine del New York Times, l’ex direttore della Cia Michael Morell ha annunciato il suo appoggio per Clinton: in 33 anni passati all’interno dell’agenzia, “ho servito presidenti democratici e repubblicani”, ha detto, ma “da funzionario di governo sono stato sempre in silenzio sulle mie preferenze politiche: ora non più”. Morrell spiega che crede nelle capacità di Hillary, ma soprattutto come motivazione del suo appoggio crede che “Trump non solo non è qualificato per il lavoro [di presidente], ma può anche costituire una minaccia per la nostra sicurezza nazionale”; detta da un ex direttore dell’agenzia di intelligence più importante del mondo, la cosa può assumere un suo peso. Morell l’ha chiamato “un agente involontario di Putin”.
È un disco che gira a nastro, ormai. Mentre si avvicinano i mesi delle elezioni, l’establishment americano si dichiara preoccupato di un’eventuale vittoria di Trump. Ne seguiranno altre di prese di posizione del genere, ma non è detto che il fatto sia del tutto negativo per il magnate newyorchese che gode di consensi soprattutto tra gli anti-establishment.
Negli ultimi dieci giorni Trump ha fatto tutto ciò che nessun candidato non vorrebbe fare nemmeno una volta nella propria storia politica, perché sa che in quel modo si giocherebbe di certo l’elezione. Ha invitato i servizi segreti russi a spiare i server di Clinton, ha chiamato” fallito” il generale dei Marines John Allen (uno dei quattro stelle più importanti dell’esercito americano), ha preso in giro i genitori del capitano Humayun Khan, eroe di guerra sacrificatosi in Iraq per salvare dei commilitoni (secondo Trump il padre di Khan è “infastidito” dai suoi piani per tenere i terroristi lontani dal paese), poi dalla vicenda se n’è scatenata un’altra parallela, visto che il capitano era musulmano e un’altra ancora collegata ai sacrifici fatti per la patria dal miliardario prestato alla politica (tipo assumere molta gente, che non è del tutto definibile un sacrificio simile al dare la propria vita per la patria), se l’è presa con un pompiere colpevole di aver bloccato l’accesso di altre persone per far rispettare la capienza del luogo in cui stava tenendo un comizio, ha allontanato una coppia da un altro comizio perché il loro bambino piangeva e questo lo disturbava, ha detto che “se le elezioni fossero truccate, non ne sarei sorpreso”, s’è inventato un video che mostrerebbe un aereo americano mandare 400 milioni di dollari in contanti in Iran per ottenere il rilascio, avvenuto il 17 gennaio, di tre americani arrestati e detenuti con accuse poco chiare (i portavoce della sua campagna elettorale hanno chiarito che il video non esiste), ha annunciato che non sosterrà Paul Ryan alle primarie (altro strappo col partito), mentre il suo vicepresidente dichiarava il proprio sostegno allo Speaker della Camera, ha litigato con i più grossi finanziatori del Gop, gli storici fratelli Koch.
Scrive Christian Rocca in un pezzo su IL, il magazine del Sole 24 Ore che dirige, in cui ha raccolto le mirabolanti avventure settimanali di Trump: “Ogni tanto ho l’impressione che Donald Trump stia partecipando a un reality show speciale, il cui scopo è quello di farsi eliminare dagli elettori, e che la difficoltà del gioco consista nel fatto che gli elettori pensino il contrario, cioè che Trump dica enormità perché vuole essere eletto. I giornali raccontano che i suoi consiglieri e strateghi non ne possono più, non riescono nemmeno a parlargli e che, insomma, la campagna elettorale sia in alto mare. Ecco, ho come il dubbio che Trump non voglia essere eletto. Oppure è veramente instabile, ed è la cosa che preoccupa di più”.