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Perché io, già in Forza Italia, voterò Sì al referendum sulla Costituzione

Pera

Qualche tempo fa, la ministra Maria Elena Boschi ha dichiarato che, se avesse potuto scriverlo lei personalmente, il testo della riforma costituzionale sarebbe uscito migliore in alcuni punti. Non ne dubito, perché la Boschi sta mostrando di essere un talento politico (uno dei pochi nati negli ultimi anni), e di aver acquisito non poche competenze tecniche. Al tempo stesso, non dubito che, in particolare riguardo alle procedure parlamentari, figure come Paolo Aquilanti, ora segretario generale di Palazzo Chigi e prima capo dipartimento con la Boschi, e Antonio Malaschini, già segretario generale del Senato, avrebbero fatto di gran lunga meglio di tanti costituzionalisti di professione.

Se così non è successo, e se la riforma qua e là zoppica, è perché il testo è passato dai gruppi parlamentari, soprattutto del Senato, che hanno dato il meglio (cioè, il peggio) per prendersene ciascuno qualche pezzo a suon di ricatti, trattative ed emendamenti, come se fosse una legge di Stabilità finanziaria, dove ogni genere di piccole norme vengono introdotte a beneficio di questo o quell’interesse organizzato e protetto. Con il concorso determinante della sinistra del Pd e anche di coloro che presentavano milioni di proposte di modifica, il Senato ha cambiato il testo originale in peggio.

Ad esempio, sulla modalità di rappresentanza delle regioni e dei sindaci, sul rimpallo fra le due Camere, sull’immunità, sull’intervento della Corte costituzionale nel processo legislativo, un autentico mostro che viola il principio della divisione dei poteri e avrà come effetto quello di limitare la sovranità parlamentare e di trasformare la Corte in un organo eminentemente politico, ancorché opaco, perché non fa conoscere le sue maggioranze e minoranze.

Ma tant’è. Ora il testo c’è e sarebbe da miopi non prendere atto della sforbiciata che dà alle istituzioni della Repubblica. Parlerà per ciò che espressamente dice e per ciò che la consuetudine e la giurisprudenza gli faranno dire. In questo secondo caso, importante come il primo, il testo dirà bene o dirà male, come è accaduto a quello della Costituzione del ’48.

Per fare un esempio negativo, di cui soffriamo conseguenze esorbitanti che neppure i Presidenti della Repubblica riescono a correggere: avrebbero mai immaginato i vecchi costituenti che il Consiglio superiore della magistratura, di cui essi fissarono precisamente con un elenco chiuso le competenze, si sarebbe trasformato in un mercato nel tempio? Oppure che la Corte costituzionale avrebbe dichiarato incostituzionale una legge elettorale, delegittimato Parlamento e governo, introdotto un sistema elettorale che gli italiani avevano dichiarato di non volere, e tutto sulla base di un ricorso individuale? Oppure ancora che la stessa Corte, con sentenze additive, diminutive, correttive, o semplicemente fantasiose, avesse spesso deliberato con motivazioni palesemente politiche, in nome di un “principio di ragionevolezza” spuntato Dio sa da dove?

Così è: ogni testo costituzionale, compreso quello vigente e compresa la sua parte prima, che si fa finta di considerare “sacra”, ha sempre qualche pecca, lacuna, ambiguità, a cui talvolta pone rimedio la prassi materiale delle istituzioni, la quale è come la vita degli uomini, che si correggono, si adattano alle circostanze, si modificano, a seconda di nuove situazioni impreviste o nuovi fini sopraggiunti. Questo per dire che non è sulle singole pecche che si potrà giudicare la riforma costituzionale, ma sul suo senso di innovazione complessiva.

Il referendum ha assunto due significati fondamentali, da cui dipenderà la sua sorte. E poiché entrambi riguardano il destino non solo del governo ma dell’Italia, il presidente del Consiglio ha fatto bene a metterci sopra tutte le sue carte politiche, fino a chiedere la fiducia sul suo operato, pena le dimissioni.

Il primo significato è racchiuso nel seguente quesito rivolto agli italiani. Dopo fallimenti pluridecennali, a riprova che pluridecennale è il problema della riforma costituzionale, dalla commissione Bozzi a quella De Mita, a quella D’Alema, alla legge Berlusconi, ritenete voi che la Costituzione si possa infine riformare per rendere il funzionamento della repubblica più efficiente, più snello, più simile a quello medio europeo?

Oppure volete voi continuare ed eleggere una Camera che fa tutto e un Senato che ugualmente fa tutto? Ritenete voi che il presidente del Consiglio debba avere la fiducia due volte? Che per ogni legge egli debba trovarsi una maggioranza due volte? Che il parlamento debba prendere la stessa decisione due volte? Quale altro Paese voi conoscete in cui accade qualcosa di simile? E se per impossibile ne trovate uno, pensate che quello sia un paese che prende decisioni rapide, che tutela la trasparenza, che mette in chiaro le responsabilità politiche fissate dagli elettori? No, non c’è niente di simile al mondo. E che questa situazione non possa continuare, lo prova il fatto che tutti (tutti) i presidenti del Consiglio degli ultimi 20 anni sono stati costretti a ricorrere, per qualunque provvedimento appena significativo, ai voti di fiducia “tecnica”, con palese sistematica violazione della Costituzione.

Il secondo significato del referendum è contenuto in un altro quesito. Supponiamo che la riforma sia bocciata. Avremo una crisi istituzionale irreparabile, se non altro perché resterà in vita un Senato politicamente determinante ma ormai defunto nella coscienza dei cittadini. Avremo una crisi di governo irrisolvibile: senza Renzi, nell’attuale Parlamento non ci sono alternative. Avremo una crisi politica permanente: non si potrà votare perché manca la legge elettorale, oppure si dovrà votare con una legge proporzionale imposta dalla Corte costituzionale, ripudiata da tutti e per di più incapace di garantire una maggioranza stabile di governo. Che cosa accadrebbe in tal caso?

Si produrranno due conseguenze. La prima: una paralisi politica senza sbocchi, pericolosa per la democrazia. La seconda: una crisi finanziaria gravissima anch’essa foriera di avventure antidemocratiche. È accaduto che il presidente del Consiglio si sia speso per le riforme, che l’Europa lo abbia preso sul serio dandogli un po’ di ossigeno, che i mercati lo abbiano apprezzato risparmiandogli turbolenze. Un passo indietro (sul genere “abbiamo scherzato”) ci provocherebbe una tensione con l’Europa e una sfiducia dei mercati: chi ci ha dato più flessibilità, la rivorrebbe indietro, chi già ritiene che il nostro debito pubblico sia ai limiti della sostenibilità, lo giudicherà non più sopportabile e ci chiederà il rientro.

A quel punto, soprattutto se l’Unione europea avrà superato indenne il terrore della Brexit, sarà con noi gentile e spietata: gentile, perché ci concederà forse la libertà di trovarci da soli un presidente del consiglio, spietata, perché, a chiunque egli sia, metterà in mano tre cartelle da leggere in parlamento. Insomma: sovranità politica perduta, code ai bancomat, troika. Dove si è già visto?

Di fronte a queste conseguenze tutt’altro che ipotetiche, mi pare assurdo parlare delle pecche del testo di riforma. Lasciamo queste discussioni a quei sofisticati periti calligrafi dell’attuale Costituzione che non hanno neppure l’onestà intellettuale di dire che il loro vero e unico scopo è di mandare a casa il governo. O lasciamole all’onorevole Berlusconi, il quale, dopo aver approvato e votato il testo, aver cambiato opinione per misteriose ragioni, e costretto i suoi parlamentari al ruolo di stracciaroli, questo scopo lo dichiara esplicitamente. Come se, caduto il governo Renzi, potesse succedergli il governo SalviniMeloniBerlusconi o Brunetta. Sia almeno lode al realismo politico e alla lungimiranza del gruppo di Ala per aver compreso che questo è il delirio di chi non ha più il polso della situazione e ha perduto la percezione del baratro che, anche per colpa sua, ci potrebbe inghiottire.

(Articolo pubblicato su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)



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