L’obbligo di indossare burka, burkini e velo è segno di una cultura che esercita violenza sulle donne? Non c’è dubbio. Il divieto di indossare questi indumenti è la risposta giusta? Non credo proprio. Ma non è soltanto questione di prudenza. Certo occorre evitare il rischio di esacerbare l’animo di chi, maschio islamico fondamentalista, vivrebbe questo divieto come una provocazione e si incamminerebbe sul sentiero della radicalizzazione violenta, come sottolinea con buone ragioni il ministro dell’Interno Angelino Alfano.
Ma il punto è che una società liberale non è di per sé una società libera. Ne è il presupposto, ma solo in quanto limita il potere repressivo dello Stato e consente lo sviluppo di scelte individuali e di costumi sociali all’interno di un sistema definito e limitato di leggi.
In uno stato di diritto le imposizioni di un uomo su un altro, o di un uomo su una donna e viceversa, sono punite dalla legge solo se si accompagnano a minacce e se queste minacce vengono denunciate da chi le subisce essendo in grado di denunciarle. Le violenze sui minori, sui malati, sugli incapaci non richiedono denunce di parte. Quelle fra adulti capaci di intendere e di volere sì, tranne nei casi più gravi.
Le leggi che introducono l’azione automatica della magistratura nelle violenze fra adulti sono leggi emergenziali, che si situano sul crinale fra lo stato di diritto e lo stato paternalista, ed è bene valutarne con attenzione le conseguenze. Spesso spingono nella clandestinità e rendono irrimediabili situazioni che potrebbero risolversi nel tempo.
Imporre la libertà non fa parte dei compiti, e tantomeno dei doveri, di uno Stato liberale. Ciò che importa è che vi sia un ordinamento giuridico che consenta a chi si ribella alla limitazione della propria libertà di denunciarla e di sottrarsi alla violenza fisica o morale grazie alla forza della legge. Sfuggire a questo genere di imposizione è difficile, comporta sofferenze, emarginazione, rotture dolorose con l’ambiente in cui si è cresciuti. Ma produce responsabilizzazione, che è il presupposto della liberazione.
Libertà senza liberazione non è una conquista durevole, non promuove mutamenti culturali, non frena la violenza implicita in comportamenti che derivano in qualche misura dalla convinzione di essere dalla parte del giusto, della fede e della tradizione.
Occorre una rottura nella trama della civilizzazione per compiere il passaggio dalla sottomissione all’uguaglianza, e questo vale per le persone come per i popoli (il fallimento della strategia di “esportazione della democrazia” c’è l’ha amaramente provato).
Uno Stato liberale offre tutti gli strumenti per realizzare questa rottura nel modo meno traumatico possibile (che non significa non traumatico). Uno Stato moralista che vuole imporre a una minoranza il comportamento della maggioranza in nome del buon costume del tempo rischia di risolversi, nel volgere del tempo, nel suo opposto. È un rischio che gli italiani, ad esempio, hanno conosciuto in varie forme, più o meno violente, più o meno ridicole, in passato. Superate le leggi illiberali reazionarie, evitiamo ora di introdurre leggi illiberali progressiste.