Fa tanto discutere, specialmente sotto gli ombrelloni, la questione del Burkini, vale a dire del velo da spiaggia che indossano alcune donne musulmane. Fa tanto discutere perché in alcune località francesi è stato vietato, e in Germania si sta pensando a delle restrizioni simili.
Cerchiamo di mettere un po’ di chiarezza.
Dal punto di vista del costume, il Burkini non corrisponde in alcun modo ad un abbigliamento occidentale, sebbene il bikini in spiaggia abbia avuto da noi una sua evoluzione. Fino agli anni ’50 il costume due pezzi era ostracizzato dalla Chiesa Cattolica e, dopo l’esplodere del fenomeno topless, ci sono stati passi indietro negli ultimi anni. Oggi non esistono, aggiungo grazie a Dio, indicazioni morali collettive sul vestiario da mare tranne il buon gusto affidato alla sensibilità personale.
La libertà della donna e la manifestazione della sua bellezza di genere sono valori fondamentali nella cultura dell’Occidente contemporaneo. Tuttavia, se si va in alcune regioni d’Italia, si vedono ancora, sempre meno ma ci sono, anziane signore che si vestono di nero e non entrano neanche sotto tortura in contesti marittimi.
Il punto ovviamente non è questo. Riguarda invece l’attuale confronto culturale tra un certo tipo di costume religioso islamico e il nostro status di secolarizzazione. Presenza maggiore di musulmani, presenza di donne che si abbagliano in spiaggia coprendosi, coincide con la presenza di sistemi valoriali opposti al nostro negli stessi luoghi di villeggiatura.
Vi sono due ordini di questioni in merito al tema.
Il primo riguarda le identità e le libertà personali. È normale che noi troviamo distante mille miglia dalla nostra visione della vita e della realtà femminile castigare il corpo di una donna. Se questo modo di essere non viene accolto da tutti come progresso, ciò indica che la nostra mentalità non è attrattiva e purtroppo l’Europa in genere non rappresenta per chi arriva un luogo di emancipazione e libertà ma solo di sopravvivenza o di apologia islamista.
Qui si apre il tema della libertà personale. Ognuno può vestirsi come vuole, purché lo faccia volontariamente. Mentre però combattere un costume svilente si muove su di un piano sociale, tutelare la libertà di ogni donna dal sopruso e dal dominio di un’eventuale coercizione si pone come un’esigenza legale e politica di ben altro livello.
I nostri Stati si sono completamente indeboliti da questo punto di vista, hanno accettato che, non solo da un punto di vista religioso ma anche strettamente umano, si concedesse legittimità legale al relativismo etico. Attualmente davanti ai Burkini sarebbe assurdo perciò, in nome di un’identità comunitaria che è stata combattuta politicamente e considerata estranea alle finalità delle nostre istituzioni, obbligare alcune minoranze di donne ad un maggiore grado di nudità.
Se lo fa la Francia, poi, campione del laicismo, il fatto diventa perfino ridicolo.
Uno Stato deve riconoscere o vietare, secondo i casi, unicamente ciò che è compatibile o contrario al bene comune. Un costume chiuso e coprente al massimo non rientra in questo genere di cose, ma anzi vietarlo alimenterebbe un processo nel quale poi ci troveremmo ad avere divieti per i sacerdoti cristiani a mettersi abiti sacri o, peggio ancora, la resa illegale di ogni abbigliamento che non sia borghese e ordinario. Secondo chi o che cosa farlo? Chi stabilisce per una donna o anche per un uomo come è meglio vestirsi?
Invece che perdere tempo dunque su queste sciocchezze sarebbe molto più opportuno che ci occupassimo a livello culturale e sociale di diffondere e divulgare la nostra visione dell’uomo e della donna, con maggiore orgoglio e consapevolezza tradizionale, e a livello politico di difendere legalità, ordine pubblico e confini.
La perdita di anticorpi non può essere curata facendo la caccia alle mosche o entusiasmandosi nel proporre edulcorate e simboliche sanzioni che non rimediano né ai danni di un Occidente in crisi, né alle cause che li hanno prodotti.