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Cosa penso di bikini, mutandoni e burkini

Ero un ragazzino (avevo appena sostenuto l’esame della terza media) quando, con i miei genitori e dei loro amici, passai una domenica in gita al mare (se ben ricordo nei lidi del ravennate). In spiaggia c’era una signora, non più giovanissima, che indossava un costume – come si diceva allora – a due pezzi: una mutanda di dimensioni ascellari ed un morigeratissimo reggiseno. Di scoperto c’era solo qualche centimetro di pelle “dalla cintola in su”. La cosa suscitò tra i bagnanti (soprattutto le bagnanti) un rumoreggiare di critiche scandalizzate, tanto che – ad un certo punto – arrivarono (come nella canzone di Fabrizio De Andrè) due carabinieri – armati fino ai denti – a multare la scostumata, tra l’apprezzamento generale. Penso sempre a quell’episodio di più di sessant’anni or sono, quando mi capita – al mare – di sbirciare di sottecchi qualche rotonda natica femminile, esibita, con disinvoltura, alla luce del sole, constatando, tra me e me, che il più importante progresso dei nostri tempi riguarda proprio la concezione del buon costume (che ha avuto tanta importanza nell’evoluzione dei rapporti interpersonali). Me ne sono ricordato anche in questi giorni assistendo al dibattito sui “burkini”. E mi sono detto: “Ma se una donna vuole fare il bagno vestita, a noi che ci frega?”. Il bello è che, a protestare, sono, prima di tutto, quelle tardo-femministe sempre pronte a condannare la “mercificazione” – nella pubblicità, nella moda, negli spettacoli, sulla stampa e in tv – del corpo della donna (che resta, invece, la principale prova dell’esistenza di Dio, con buona pace del sottosegretario Ivan Scalfarotto).


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