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La guerra dimenticata in Yemen

Il 17 agosto sono usciti due pesanti editoriali sul conflitto in Yemen, uno sul New York Times, l’altro sul Guardian, scritti entrambi dai rispettivi Editorial Board, e questo significa che rappresentano la linea che il comitato di redazione ha preso sull’argomento. La guerra civile yemenita è un conflitto che dura da oltre un anno, su cui i riflettori sono pressocché spenti: i ribelli Houthi hanno conquistato il controllo di ampie fette del paese, scendendo dal nord verso la capitale Sanaa, a fermarli è intervenuta una coalizione guidata dall’Arabia Saudita e composta prevalentemente da paesi arabi sunniti (gli Houthi sono una setta sciita con collegamenti con l’Iran), i quali però non sono riusciti a recuperare il bandolo della matassa, non hanno scacciato i ribelli e anzi, concentrando l’intervento sulla costa occidentale, hanno favorito – più o meno indirettamente – l’espansione della filiale qaedista locale, l’Aqap (Al Qaeda in Arabic Peninsula), che è considerata la branca più pericolosa perché quella autorizzata dalla guida Ayman al Zawahiri a compiere attentati all’estero.

LO STALLO E LE VITTIME CIVILI

Non solo la situazione è in stallo, anche i negoziati sono saltati il 6 agosto, e la coalizione araba, intervenuta a marzo del 2015, non sembra in grado di poter vincere: nel frattempo, 6500 persone sono state uccise e oltre due milioni e mezzo sono i profughi. Save the children sostiene che almeno uno su tre dei bambini sotto i cinque soffre una condizione di malnutrizione acuta e secondo un rapporto congiunto di Banca mondiale, Nazioni Unite, Banca islamica di sviluppo e Unione europea, i danni infrastrutturali ammontano già a 14 miliardi di dollari; lo Yemen è uno dei paesi più poveri del mondo (prima della guerra il Pil procapite ammontava soltanto a 1100 dollari). I civili vengono colpiti nonostante le tecnologie d’avanguardia degli eserciti del Golfo che guidano le operazioni contro i ribelli, tanto che a questo punto non è chiaro se ci sia una negligenza operativa oppure una deliberata volontà di non distinguere tra obiettivi, le colonne militari come le scuole, gli ospedali, le fabbriche alimentari: la scorsa settimana, per la quarta volta, è finito sotto le bombe saudite un ospedale di Medici Senza Frontiere (15 morti). Un report redatto dalle Nazioni Unite ha accusato la colazione araba di aver prodotto il 60 per cento di morti e feriti civili.

LE COLPE DI OBAMA

Il Nyt scrive apertamente che “gli Stati Uniti sono complici di questa carneficina” perché hanno aiutato la coalizione in molti modi, “tra cui la vendita di armi ai sauditi per placare i loro [animi] dopo l’accordo nucleare con l’Iran”. È un’affermazione pesante, anche (o soprattutto) perché arriva da un giornale che è spesso morbido con l’amministrazione Obama; ma sarebbero 110 i miliardi armi venduti dall’America durante il periodo amministrativo del premio Nobel per la Pace Barack Obama ai sauditi, e forse questo, insieme alla sempre ambigua presenza di Riad in diversi dossier, primi fra tutti quelli del terrorismo islamico, ha portato il più importante giornale del mondo a prendere una posizione tanto dura.

AMERICANI, MA ANCHE FRANCESI E ITALIANI

In realtà gli americani non forniscono soltanto armi, ma fanno anche attività di consulenza a Riad, passando dati di intelligence e le immagini dei droni e dei satelliti che battono continuamente lo Yemen in cerca dei leader di Aqap: dunque tra le mani dei sauditi dovrebbero arrivare informazioni certe sugli obiettivi, cosa succede dopo non è chiaro. Altri paesi occidentali, tra cui la Francia che ha stretti rapporti con gli Emirati Arabi (impegnati anch’essi in Yemen) forniscono aiuto alle forze che vorrebbero fermare i ribelli e reinsediare il presidente Abdu Rabbu Mansour Hadi: il Drm, l’intelligence militare francese, ha passato ai sauditi immagini corredate da report, ottenute dai satelliti spia Pleiades e Helios fin dall’inizio dei bombardamenti; le riprese satellitari hanno altissima definizione (inferiore al metro) e Parigi le utilizza stile brochure, perché l’obiettivo profondo è vendere alcuni di qui sistemi a Riad. Tra questi paesi impegnati più o meno direttamente al fianco del raggruppamento di paesi sunniti “anti-Houti” c’è anche l’Italia, che fornisce bombe aeree all’Arabia Saudita: Amnesty International aveva scatenato una bufera nel novembre scorso, dopo che un carico di Mk84 prodotte negli stabilimenti della RWM Italia di Domusnovas e destinato a Riad era stato ripreso sulla pista dell’aeroporto di Cagliari/Elmas e tracciato fino allo scalo della Royal Saudi Armed Forces a Ta’if da Reported.ly; la ministro Roberta Pinotti aveva risposto sostenendo che quella fornitura era conseguenza di un regolare accordo commerciale (Rete italiana per il Disarmo sostiene invece che la legge n. 185 del 1990 vieta espressamente le esportazioni di tutti i materiali militari e loro componenti verso i Paesi in stato di conflitto armato).

IL GUARDIAN CHIEDE DI FERMARE LE ESPORTAZIONI DI ARMI

Anche il Regno Unito è uno degli stati che ha fornito armi all’Arabia Saudita c’è: il Guardian scrive che “la Gran Bretagna si porta molto del peso della responsabilità di questa sofferenza” e cita il fatto che le regole sulle vendite di armi vietano la commercializzazione se si verifica il rischio che gli armamenti possano finire in zone in cui vengono meno i diritti umanitari. Eppure le stime della Campaign against army trade inglese dicono che circa 3,3 miliardi di armi sono state vendute da Londra ai sauditi soltanto nell’ultimo anno. Gli inglesi fanno parte anche del comando congiunto che, oltre al commercio di armi, dà sostegno operativo alle forze sunnite guidate da Riad, insieme agli americani (e ai francesi): della struttura aveva ufficialmente parlato il ministro degli Esteri saudita, Adel al Jubeir, a gennaio, ma l’esistenza dell’operation room era già nota da tempo, sebbene disse Jubeir che i consulenti occidentali non hanno ruoli diretti. “La Gran Bretagna e gli altri esportatori di armi dovrebbero sospendere le vendite con effetto immediato, e fermare altre forme di sostegno agli attacchi e usare la loro influenza per rilanciare il processo di pace” scrive il giornale londinese: “La Gran Bretagna ha tratto profitto a spese dei civili yemeniti. Ora dovrebbe fare tutto il possibile per proteggerli”.

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