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La lezione della Primavera di Praga

Lavoro cassimatis, GIULIANO CAZZOLA

Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 le truppe del Patto di Varsavia (La Nato dell’Impero sovietico) invasero la Cecoslovacchia e stroncarono la cosiddetta Primavera di Praga, ovvero il tentativo del leader del partito comunista di quel Paese, Alexander Dubcek, di costruire un regime più aperto ed orientato alla democrazia. La prospettiva di un “comunismo dal volto umano’’ (come si diceva allora) aveva suscitato molte speranze (ed illusioni) nel mondo  (ancora squassato dai venti della contestazione giovanile che stavano spirando in tutto l’Occidente). Ma quell’esperienza venne ritenuta insostenibile dai despoti del Cremlino a causa degli effetti imitativi che si temeva esplodessero in tutti i Paesi del cosiddetto socialismo reale. La parola passò quindi ai carri armati. Ci vollero altri vent’anni perché quei regimi cadessero, uno dopo l’altro, come castelli di carte, dopo il crollo del Muro di Berlino il 9 novembre del 1989.

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“Allo stato dei fatti, non si comprende come abbia potuto in queste condizioni essere presa la grave decisione di un intervento militare. L’ufficio politico del PCI considera perciò ingiustificata tale decisione, che non si concilia con i principi dell’autonomia e indipendenza di ogni partito comunista e di ogni Stato socialista e con le esigenze di una difesa dell’unità del movimento operaio e comunista internazionale. È nello spirito del più convinto e fermo internazionalismo proletario, e ribadendo ancora una volta il profondo, fraterno e schietto rapporto che unisce i comunisti italiani alla Unione Sovietica, che l’ufficio politico del PCI sente il dovere di esprimere subito questo suo grave dissenso’’.  Fu questa la prima reazione del Pci. Oggi il comunicato dell’Ufficio politico (il più importante organo esecutivo in quel momento) ci appare un po’ contorto e cerchiobottista. Allora fu salutato – per l’espressione di un ‘’grave dissenso’’ – come una vera e propria svolta nella linea di condotta del Pci, a cui tutti  facevano sempre grandi aperture di credito.

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Quanti (e come) ricorderanno oggi quell’evento?

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Ancora a proposito di ‘’burkini’’. Mi è stato fatto notare che rischierebbe il linciaggio una donna italiana la quale si presentasse sulla spiaggia di uno Stato islamico indossando il bikini che porterebbe normalmente a Rimini. Pertanto – hanno aggiunto – è giusto proibire il ‘’burkini’’, da noi. Trovo singolare un siffatto ragionamento. Non mi sembra il caso di spogliare per legge quelle donne che gli islamici costringono a restare vestite.

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Narrano che tornando in Numidia Giugurta abbia commentato così il suo soggiorno a Roma (intorno all’anno 100 a.C.): ‘’Bella città, ma corrotta, destinata a finire presto appena troverà un compratore’’. Da allora sono trascorsi più di duemila anni e Roma è stata comprata e venduta tante volte. Ma è ancora lì. E ci sarà anche quando si perderà la memoria di Giuseppe Pignatone e di Mafia Capitale.

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